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Debito d'ossigeno

un documentario di Giovanni Calamari – da qulche parte bisogna pur cominciare.

Ci siamo conosciuti su un’isola, quando lui era un regista di matrimoni – matrimoni vips, dove gli sposi  nel filmino non corrono mano nella mano tra le onde sulle note di Gigi d’Alessio – e io la ragazza dell’acqua e limone.

Ovvio che col passare dei secoli, fosse solo come tribute a tutti quei limoni spremuti vestita da ancella, io andassi a vedere il suo documentario,  proiettato in un cinema d’essay di Milano, roba per gente con la erre moscia, occhialuti incappottati, intellettualoidi di sinistra e pesantoni come me.

D’altronde alla sfogliatella arrivo con animo buono: vedi Merin, lui fa cinema e tu non spremi più limoni da un po’ eppoi dicono che piove sempre sul bagnato. Tsè.

Poi in sala si spengono le luci e succede qualcosa. Mi manca l’aria. Non  subito, mi manca dopo un po’, dopo la bella musica.

Si parla di precari, si parla di me, ma molto più di me, precari più precari, quelli che hanno figli, hanno il mutuo sulle case, che perdono il lavoro a tempo indeterminato o che non possono farlo il lavoro, il loro di lavoro, quello per cui hanno studiato. Ma se vanno in cassa integrazione quelli a tempo indeterminato,  che fine fanno gli altri?

Fanno il call center, fanno  le sveglie all’alba, i piatti di pasta scotti, centinaia migliaia di piatti di spaghetti, pasta dovunque, pasta sempre,  colorito giallognolo di pasta e sogni centrifugati al succo di pomodoro.

Che si lavori dal lunedì alla domenica come la protagonista della prima storia, o che si venga licenziati all’improvviso, insieme,  marito e moglie della seconda storia, c’è un’ unica ossessione: lavoro soldi pagare, il lavoro ci nobilita, lavoro come scopo, lavoro dignitoso, lavoro del capofamiglia, lavoro mi sento utile e dò un senso alle mie giornate, lavoro non penso, lavoro non sto alla finestra a guardare gli altri che lavorano,  lavoro solo per comprare le cose a mio figlio e pagare l’affitto, lavoro mi piace, lavoro ma non ho una vita, lavoro mi stordisco, lavoro dico che ho un lavoro, lavoro scelgo, insisto, lavoro faccio quello che mi capita, lavoro crollo e me vac’ a cuccà, lavoro attendo, non capisco più se lavoro o no.

I protagonisti delle storie fanno i nomi dei cattivi,  quelli che falliscono, quelli che licenziano, quelli che ben pensano: Motorola eccetera. Vivaddio. Non c’è solo Saviano che fa i nomi dei boss in questa Italietta d’Avanspettacolo.

Io non me ne intendo di cinema, ma il racconto per immagini è  una tac nelle anime dei personaggi , la descrizione cruda di un tubo senza spiraglio per i sogni e arriva, eccome se arriva.

Ma per capire meglio quello che ho visto è meglio forse andare a vedere, se capita.

E nel pensare a chi non ha mai spremuto un limone per scelta è proprio l’immagine di quei limoni su quell’isola che mi rassicura lasciando la sala. Nonostante tutto.