Category: Insalata mista

Disordina

E mentre ti spalmi l’olio johnson vorresti che maturino le pere.
E’ estate, sole di cicale, sale di melone, semi d’anguria.
Acqua, nuotare, senza occhialini che non comprerai.
Legandoti i capelli prima di immergerti.
Ti aggrappi a uno scoglio nascondendo il promontorio divenere.
La stessa strada da dieci anni e quella chiesa non l’hai mai vista.
Saviano mette ansia perché quellanapoli non la capisci.
Tu che vuoi capire sempre tutto. Gomorra con un segnalibro di Medjugorie.
E il tempo vola via, scorre sotto una doccia delle 6.50.
E non ci sono scarpe comode per Merincì, pronatrice confessa dinfradito.
La luna ti spegne il cervello intriso di lime e battute di shopping.
E luglio si sgretola nel conto alla rovescia di cinque lettere: stage.
E dillo Merincontraria.
Dillo che vuoi scrivere.
A penna, a gessetto, a matita, sulla tastiera unta, coi disegnini mentre parli a telefono.
E invece perdi tempo a fare l’editing della tua vita.
Non hail coraggio.
A mettere in ordine i cazzi di altra gente, perdi tempo.
E tra un enjambment e l’altro, ti acchiappi pure un destro da due scugnizzi.
Ma ordina Merincontraria.
Ordina e poi finalmente disordina.

Desperate Housewife

Disperata. Sono una casalinga disperata.
E non perché mi trombo il giardiniere come quelle del telefilm, né perché il Nelsen liquido mi ha scardato la french manicure.
Semplicemente non sono una casalinga.
Saranno le mani da pianista, come diceva mia nonna. Sarà che col grembiulino sembro la Dellera dei poveri più che una cuoca apprendista, sarà quel che sarà, sono il fallimento domestico del nuovo millennio. In questo raggiungo l’eccellenza.
Ho fatto più danni io in tre giorni senza mia madre che nostrosignor per il creato. Ih Ih.
La lavatrice. Un incubo. Versare il detersivo liquido fuori dal cestello può capitare. Ma non aprirlo con la centrifuga in stand by.
E’colata talmente tanta acqua bluelettrico che per arrivare nella mia stanza ci son voluti braccioli, maschera e tubo. Ma i misteri del prelavaggio sono nulla rispetto all’ermetismo dei colori. Ho trascorso mezz’ora di fronte a un top grigio melange non sapendo dove collocarlo.  “Chiari” e “Scuri” sono categorie semantiche troppo dilatate per una non affiliata. L’universo  della lavatrici si regge su semiosi illimitate sconosciute ai più. Il pareo fiorito dove va? Ne i “Colorati”?! E la tovaglia buona di merletto la lavo a freddo o nel girello dei 40°?
Sono la lavandaia degli aloni, la cuoca che apre i cassetti con le mani sporche d’olio, la casalinga che dimentica il freezer aperto, la sorella che i fratelli odiano perché li lascia senza mutande, la figlia che la mamma odia perché si è dimenticata di dare a mangiare alle tartarughe.
Disperata. Ero.
Stamattina  risveglio new age a ritmo di Folletto e Rainbow. L’ Aperegina è tornata, affiancata dalla fida operaia che con 7 € all’ora viaggia a 150 km orari.
 

www mi piaci tu

www mi piaci tu. www. www.
E non sei neanche tanto bello.
Mi parevi meglio.
Con la tua t attaccata al palato.
E hai anche i riccioli intorno all’ombelico.
E sono sicura che ce l’hai corto e grasso.
Però quando distrattamente mi sfiori il gomito si sconfinfera la dopamina.
Hai le zanne a posto dei denti.
Se fossi stato un animale saresti stato un castoro.
Te lo dico perché non esisti. Già non esisti più.
Perché ti sto scrivendo.
Non scrivo a te. Scrivo di te.
Perché ci dormo su. Su di te, sul gomito, su.
Su. Succedono tante cose e io non né ho idea.
Però sappi che quel giorno lì io c’ero.
Toc Toc, tu non mi sentivi?
Dell’uomo hai l’odore e la stretta di mano.
Poi occhi tristi e colline e praterie dove corrono dolcissime le mie malinconie.
E le tue?
Chi sa. I colori non li vuoi più.
E tirittitì.
Non sai che ti perdi. Le mie visioni.
Vibrazioni nell’etere.
Perché lo ammetto, mi fai sesso.
Per amarti non ho tempo.
Devo struccarmi.
 
Dedicato a Ombretta.
 
 

Stagista

Sono una donna sociale e ho un ruolo nel mondo.

A 14 mesi dalla laurea e una montagna di pali so finalmente rispondere alla domanda che stai facendo senza incarnarmi nel manga di Lamù e fulminare l’Ataru Moroboshi di turno.

Sono stagista. (Vaffanculo).

Sta -g i -sta. Du iu anderstend o vuoi lo spell? Si si, la divisione in sillabe è sbagliata, hai ragione tu fratello. Ma non me ne frega niente. Perché io sono staggista. Con due g.

Stagista. Di una importante società di produzione che non ti sto qui a spiegare frà perché tanto a te il teatro non ti piace e al cinema ti sei andato a vedere al massimo commediasexy con Bonolis. Invece a me il teatro mi piace. E pure assai. E sono contenta di iniziare la giornata tra locandine e manifesti di spettacoli che non conosco. Mi stimola, come dire, il clitoride cerebrale.

Stagista. Che è molto diverso da masterina o velina della formazione. E’ un’evoluzione.

Stagista. Vita vissuta a botta di fax, telefonate da smistare agli interni, fotocopie in A3, rassegna stampa, col dramma dei fogli spillati, frà. Con l’ansia dello scacciapuntine. Io le puntine non le so togliere, buco sempre i fogli. I fogli che vanno nel riciclo perché il mio capo non butta niente e se tu butti qualcosa è capace di calarsi nel  cestino e raccogliere fino all’ultima pallottola di giornale.

Ma tu che ne sai. Ho rischiato l’amputazione delle dita  con  le tenaglie che uniscono i fogli nei faldoni.

Stagista. So cos’è un plastichino, una window, un master, un toner. Aggiorno il calendario con Microsoft Excel. E ho un quaderno dei messaggi. Altro che emergenza rifiuti. Buco i fogli con la macchinetta che fa i buchi. Che meraviglia.

E imparo un sacco di nomi. Nomi importanti, mica nomi così. Nomi per cui sono la segretaria scema con cui lasciano le figlie a fare i disegnini. Fantastico.

E ho le colleghe del Mulino Bianco che apparano tutti i guai miei in faccia al boss.

Stagista. A cui qualcuno dice che devo essere più allegra al telefono. E io vorrei spiegargli che sono burrosa e pacata, ipersensibile ai rumori, dolcemente intollerante, ma passami la capa tua che non ho tempo.

Stagista. Con il portapenne zebrato, il calendario dell’artista e la guida di sopravvivenza di Wlemetafore.

Stagista. Che si atteggia ad andare a pranzo con i vecchi buoni tutor della formazione e a sentirsi dire Aldafù, stai nella zona più vip di Napoli, chi sta meglio di te.

Stagista. In ostaggio.

Stagista. Che si dicestag indugiando mollemmente sulla sdrucciola e non steig all’inglese come se ti dondolassi sulla seggiola.

Stagista. Già nostalgica della scrittura creativa e dei brainstorming con quelle buontempone del master.

Stagista. E me la godo finchè dura. Senza em, um, e pause di riflessione.

Perchè che stai facendo?

Stagista.

 

Felice low cost

Il corpo vibra e non ha paura. Danza, urla.

E mentre mi espando c’è la luna piena.

Decomprimo il cuore.

Ma tu lo sai com’è la felicità?

Ha i cerchi d’oro e i fuseaux viola.

Ha il ventre piatto e un vestito smeraldo.

La pelle scura e gli occhi da cerbiatta.

E’ piccola e maniarella. Ti giuro.

Ha il profumo di vaniglia e caffè e il sapore del cioccolato.

Il colore dell’alba.

Balla sul mondo e nuota in una caletta che sembra un fiordo.

 

Dedicato a chi c’era. E a chi lo sa dire meglio di me.

Teatral canaglia

Quello che mi piaceva non era la ribalta.

Era camminare sulle tavole.

Era quello specchio davanti a cui mi truccavo.

Erano quelle scale dove i grandi si andavano a fumare la sigaretta.

Quanto avrei voluto fumare in quei momenti.

Avrei fumato col bocchino e il portasigarette d’argento.

Ma la paura della la voce era più forte. Non andare via. Non andare via.

Era quell’applauso.

Non quello che ti facevano.

Quello che tu facevi. E’ finito.

Quel senso di pienezza che ti restava attaccato addosso.

Quell’energia canalizzata.

Quello spazio occupato dal corpo.

E le pause, quelle sì che mi piacevano.

Mi piacevano gli altri.

Mi piaceva quel tempo in cui le età non contano.

Mi piaceva dire la mia compagnia.

Mi piaceva trasformarmi.

Anche se ero sempre un po’ cattiva e un po’ pazza.

Perché avevo i capelli ricci ricci.

E i talloni sporchi.

E tutti quei trucchi sugli occhi vivi.

E i vestiti appesi col nome sopra.

In culo alla balena. Speriamo che non cachi. Merda merda merda.

Mani strette strette. Sguardi al vetriolo.

Delle locandine non me ne è mai fregato niente.

E sentirsi, camminando avanti e dietro, in quell’inchino che non è mai a tempo.

Fai sparire quel cappotto viola.

Nostalgia nostalgia canaglia.

1,2,3…stella!

Bastano poche ore per capire cosa odi.
Uno due tre, stella.
Odio le maestre.
Le maestre napoletane che prendono la circumvesuviana si aggiudicano l’oscar di superfrustrate.
Crocerossine, ditalcattoliche, oltremodo afone, urlano i loro successi al vagone tra una risata sguaiata e un luogo comune. Perché i ragazzi di oggi non sanno più giocare, sono viziati, le bambine sono lolite anoressiche e tutti i casi umani che hanno salvato e le imprese eroiche che hanno fatto (blow job al preside?). E basta. Basta con quei boccoli alle punte e quegli occhiali con gli swarovski. Basta.
Non mi fanno pena neppure quelle che piangono al latinorum perché le figlie vogliono più bene alla cameriera. Vi odio.
Uno due tre, stella.
Odio le commesse.
Ora anche Breshka ha i commessi come Louis Vitton. Tight nero, camicia bianca, abbronzati e palestrati con quei tipici sorrisi che trasudano sdegno.
Odio le commesse che dicono è favoloso, è fatto apposta per te, è il tuo colore, ora ti devi fermare.
Odio le commesse che dicono prego appena introduci l’alluce nel negozio. Quelle che ti si attaccano dietro come sanguisughe. I commessi di paese che spiano da dietro la tenda. I commessi di città che ti fanno fare la sfilata davanti allo specchio grande. I commessi gay che non fai neanche in tempo a vederla che hanno già piegato la magliettina.
Poi quando non compri fanno la faccia da chihuahua repressi.
Sei brutta, sei brutta, abbaiano i loro occhietti maligni da dietro al bancone mentre tu esci in punta di mignoli rimpiangendo la deregulation dei megastore. Sei brutta, sei indecisa, che cazzo mi hai fatto perdere tempo se ci dovevi pensare. Si, perchè ci devo pensare è l’unica cosa che ti viene da dire.
Uno due tre, stella.
Bastano poche ore per capire cosa ami.
Io e mia madre a nasconderci dietro la panchina e a ridere come due bambine. Per non farci vedere. Per non farci sentire…
Stella!

Web – aholic.

E’ un po’ che ci penso. All’affollamento della blogsfera.

Blog come funghi, polposi e velenosi.

Blog  tamagochi: da accudire, da curare, da sfamare.

E ora il link, ora la foto, mò la canzone di sottofondo e il post che è una vita che non aggiorno e fammi controllare i Pvt,  che magari qualcuno scrive quanto sobbrava e poi shinystat, l’account su flickr e le categorie, per quando farò un sito. Ma questa sono io. Un caso disperato.

L’orticello virtuale è solo l’ultima delle dipendenze consolidate.

Le mie rote da web.

Odio parlare al cellulare ma non riesco a starne senza.

Dicesi nokiadipendenza.

Msn mi sfianca. Ma al callo dello scrittore aggiungo quello del polpastrello. Shatcallo.

Ho quattro caselle di posta. Una casella job anche se lavoro ma non guadagno dove ci sono tutti i progetti che diventeranno guadagni. Lo sento. Una casella young, a cui si accede solo per invito e che fa tanto figa col giornalista di turno e per le minchiate con gli amici. La casella suomy è ultimo baluardo di un Erasmus in Finlandia e  la casella di Alice per la bolletta telefonica on line puntualmente me la dimentico.

Quindi in ordine casuale ogni giorno accendo cellulare entro in due mailbox e controllo di cambiare il pannolino a Parola di Merincontraria.

Tornando a quello che penso sull’ affollamento della blogsfera, penso che esistono blogger e blogger. Ci sono i caposcuola e ci sono i pacchi.

Esempio di caposcuola: Pulsatilla.

Pulsatilla è come la mela colta dall’albero. Un po’ aspra, ma vera. Generazionale e mai scontata, leggera come una piuma. Si legge bevendola. E si ride, di lei e di noi stessi.

Esempio di pacco: Pornoromantica.

Pornoromantica è come lo zabaglione alle sei del mattino. Stucca. Non basta fare un ossimoro e mettere le foto di due cazzi di gomma. Periodi troooppo lunghi, dritte sul sesso che mangiano le emozioni come Pac Man le palline.

Entrambe hanno pubblicato. Esempi di codici binari che diventano scrittura. Brave.

Ma nel mio sangue di blogaholic se circola qualcosa è la ballata delle prugne secche.

Se proprio dobbiamo parlare di romanticismo allora preferisco essere cinromantica. Pornoromantica no. Decisamente. 

Dedicato a wlemetafore.

   

Cuore zippato

Che poi la cosa più bella sono le curve.

Togliere e mettere regole…Cambiare.

Il look, i sogni, le abitudini.

Prima leggevo quotidiani ora non guardo neanche più i telegiornali.

Prima scrivevo articoli ora scrivo sitcom. E ogni tanto anche articoli.

Prima giravo con la birra in mano e mi mettevo la fascia…Ora…

Prima non lavoravo, adesso neanche. Però so cosa è un team di lavoro.

Le notti come questa sempre.

In cui voglio fare tutto e sono nessuno e centomila.

Pignola e asistematica, brutalmente romantica.

Penso ai viaggi, volo a Tokyo e a Berlino, che mi stancherò presto del mare, che dovrei curare la mia ovaia pigra, mangiare meno junkee, farmi un cd per l’auto, stampare un milione di foto digitali, farmi ricrescere i capelli, imparare l’html, tenere la camera in ordine perché questa casa non è un albergo, dicono.

Mi piacerebbe un po’ di freddo secco e un po’ di silenzio.

Perché c’è troppo movimento dentro e fuori.

Idee, telefonate, mail, messaggi, appuntamenti, strategie, posti in macchina nell’attesa di quagliare. Ma poi perché. Sono così belle le rose, le spremute d’ arancia, i sogni sotto alle coperte, gli slanci senza regole. Slanci…Ne sono ancora capace? Mi vedo piuttosto allegramente automatizzata. Qualcuno diceva cuore qualcosa. Ah si, era una canzone di un neomelodico: cuore zippato.