Taha

Il nostro grande amico Aljalal

Caro Taha,

oggi mi sono fermata a pensarti e ho bruciato il risotto.

Mi sono chiesta se i Giardini Eterni sono così pieni di rose rosse, spinose e con petali carnosi, come me li immagino. Mi sono chiesta se c’è una porta coperta d’edera e rampicanti che collega i Giardini al Paradiso e mi sono chiesta come fluisce questo Immenso Spirito che effonde da Allah a Dio e, se per caso, in questa nuova vita riuscirai ad incontrare le mie nonne.

Nell’eventualità, ti prego, racconta loro dello Yemen, come tu sai fare, incantale con gli aneddoti della tua cultura millenaria, trasmetti loro l’ardente bellezza della tua città, Sanaa, come hai fatto con noi,  ma ti avverto, squittiranno impaurite per la Jambiya, il pugnale che voi yemeniti vi infilate nella cintura, borbotteranno sul velo delle donne per una questione di hairstyle – soprattutto nonna Dina che dorme con “la retina” e i becchi di cicogna per non rovinare la messa in piega – e non riuscirai a sedurle con le tue innumerevoli spezie.

Nonostante siano entrambe teledipendenti, non si faranno stregare dalla tua partecipazione a Masterchéf e rivendicheranno contro i tuoi manicaretti serviti in regali impiattamenti, la superiorità di una bella tiella di  puparuol’ e patan’ o uova all’intrippatina.

Ecco te l’ho detto: sulla questione cucina loro sono proprio come quella parola abusata e impropriamente usata… Talebane.

E invece, alla faccia del picco glicemico, quanto vorrei vederti arrivare con un vassoio di tè yemenita, il latte,  le zollette di zucchero, i bicchierini dorati, mentre guardiamo le foto del vostro matrimonio e tu alla fine ci distrai con il video del  cartone animato di una formica poliglotta da propinare ai tuoi studenti.

E di quando sei andato in fissa con Google Maps?! Con quale sudditanza io, Nicola e Laura (mezzo secolo di vita a Milano in tre) abbiamo dovuto seguirti a piedi, in fila indiana, in Paolo Sarpi, perché dovevi  essere tu, col tuo cellulare a portarci al ristorante cinese che tanto ti piaceva. Ho tatuato nell’anima il cocciuto entusiasmo di quella sera, l’orgoglio di chi comincia a penetrare le strette maglie della City (e a ingrassare come noialtri).

Cosa farai da grande il traduttore, l’insegnante, il video maker, l’ambasciatore, lo street fooder? Farai tutte queste cose Taha. Inshallah!

L’odore degli incensi della moschea mi stordisce.

Beata me che posso annusarlo. 

Ho fissato il drappo verde sulla bara in cerca dello sguardo intelligente, del  sorriso sornione a mezza bocca, della gentile eleganza, dell’ingenua schiettezza.

Beata me che posso cercarlo.  Continue reading

Zia Romilda

Meriti che io mi sforzi di non raccontare di tutto quello ho (abbiamo) perso, ma di ciò che da una vita intera mi lasci, ci lasci.

Sembra trascorso un attimo da quando due braccia possenti mi sollevavano in aria per poi scarrozzarmi, seduta nel carrello della spesa, verso lo scaffale dello shampoo Shultz alla camomilla. Perché solo gli zii possono cavalcare le fantasie di una nipotina castana e viziata che sogna di somigliare, con la camomilla Shultz, a Serena, la sua biondissima amichetta delle elementari.

Qualche secondo dopo noi bambini veniamo chiusi tutti in una stanza a fare la lotta con i cuscini, mentre zio Peppe, tuo marito, poneva fine ai nostri giri all’ipermercato per raggiungere in cielo sua madre, la nonna veneziana, una donna che non ho mai conosciuto se non nel racconto mitologico tramandato per generazioni.
Ci sono voluti molti anni da quel pomeriggio per decodificare e stanare le vostre raffinate tecniche di protezione dal dolore, per associare la perdita a uno dei giorni più avventurosi della nostra vita di cugini. Da piccoli perché eravamo piccoli, da grandi perché stavamo fuori. Preservarci è sempre stata una regola non scritta tua e dei tuoi fratelli, capaci di coalizzarvi e moltiplicarvi con la stessa apparente semplicità del teatro delle ombre cinesi.

Eri diventata vedova, una parola che apparteneva al mio lessico da sempre perché entrambe le mie nonne erano vedove, ma non riuscivo a percepirne il peso, non solo perché fossi una bambina, ma per questo tuo, vostro modo di cucirvele addosso le parole, lasciarvi attraversare da esse, scomporle con dignità e gentilezza, talvolta ironia, fino a renderle prive di forza, incapaci di descrivervi, di etichettarvi.

Cos’era cambiato, in fondo? Il salone della casa di San Giuseppe era sempre dannatamente enorme, Vera continuava a farmi giocare con i trucchi nella cabina estetica casalinga e in qualche domenica assolata ti accompagnavo a lavoro al bar di Carmela, ricevendo contemporaneamente, in cambio della mia disciplina, lo sciù e il calzone fritto. Quante emozioni si consumano nel retro di un laboratorio!
Sì, eri più magra, ma continuavi a preferire il rossetto bordeaux, indossare colori brillanti e io a ripetere a mia madre, un po’ per provocarla, che eri la più bella delle tre sorelle.

Mia zia sembra una spagnola!

Dunque, cosa era cambiato in fondo?

Oggi viene mio cugino Marcello a montarmi la villa di Barbie…

Niente non cambia niente, tutto, cambiava tutto.

Le case. Prima con la nonna, cucivi i cuscini in pendant con le tende, quanti jeans accorciati e rattoppati, le tende arancioni per la mansarda di Milano, la spola a Portici con la panda verde, poi la tua deliziosa casetta a tre piani di Vico Zappella, che un water bungalow alle Maldive non mi avrebbe regalato altrettante emozioni.

Quanto mi mancherà varcare inaspettatamente la soglia di quel portoncino, salire quella scala, la stanzetta sulla destra prima di Rino e poi tua, il caffè con la cialda Borbone rigorosamente oro, aprire il frigorifero, prendermi il bicchiere, farti i complimenti per l’ ordine impeccabile e sedermi di fronte a te  per quell’unica domanda: Alduccia, che dici a zia?

Mi è sembrato di vivere in tutte le tue case, anche nel monolocale di Zobél in cui avete vissuto da bambini quando io non ero neppure nata. Ho di certo vissuto direttamente e indirettamente tutte le tue vite e tu le mie, i tuoi grandi dolori, i miei piccoli sfoghi, i rospi ingoiati, i traguardi annunciati, le parole non dette che so che, dove sei adesso, conosci già.

Te ne vai ma quando non scivoli via dal cuore non te ne vai mai, mai!

Ci lasci il tuo pezzo più bello: la preghiera sincera, la perseveranza nella prova, la semplicità in cui germoglia ogni verità, la gentilezza d’animo, la malinconia celata dietro un sorriso, la fede salda in ogni tempesta, l’ospitalità ma soprattutto l’ accettazione piena del nostro essere. Grazie per aver accolto prima le nostre ombre che le nostre luci.

Ho perso per strada il tuo pezzo più brutto, la trasformazione, il finale già scritto.

Me ne dolgo, ma so che hai voluto come sempre proteggermi lasciandomi sperare fino all’ultimo, nell’orizzonte di una nuova estate in cui poter varcare, ancora una volta, la tua soglia inaspettatamente.

15 agosto 2019

La smarginata

Se dovessi abbracciarmi ad una parola, come ad un salvagente, mi abbraccerei alla smarginatura.

 

In questo luglio umido, il gesto quotidiano è inseguito e l’avanzare incerto. Cammino in una tempesta di sabbia. La vista s’annebbia, come quando ingolli una bibita con troppo zucchero. Eppure non bevo da giorni, non ho più bisogni. Incedo e di ciò mi nutro, imperterrita. Spingo un po’ l’anima aldilà di questo sottobosco bollente a forza di Ave Maria. Ora pro nobis, io prego per te, per TE, anche se, forzando ossessivamente lo spiraglio dei miei segreti, vorresti appropriarti di quel po’ che trascino di ME.

Tiè, tiè, tiè! Pecchè o Papa nun è Re! Ambaraba cucusette!

Vorrei svenire ogni giorno e ogni giorno devo salvare qualcuno dal piacere di perdere i sensi.

Come stai, come stai, come fanno i bambini a saltare sul letto
Tu che un letto soltanto lo disfi e lo fai
E lo sai, e lo sai non si diverte mai
L’elefante del circo
Così resti da parte felice e ricordi chi sei
Off-line, off-line, off-line
Off-line, off-line, off-line 
Off-line -Paola Turci

Vorrei chiudere gli occhi e lasciarmi cullare da un mare tiepido e compassionevole.

Luglio, stamane al mio risveglio
Non ci speravo più
Luglio, credevo ad un abbaglio
E invece ci sei tu
Luglio- Riccardo del Turco

Vorrei saltare le fermate della metro, con la grazia di un enjambment.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
Ossi di seppia- Eugenio Montale

Non ho gusti definiti e, non sapendo più cosa mi piace, attraverso le sfumature a passo svelto. Stampo in scala di grigi e leggo romanzi al buio con gli occhiali da sole. Indosso paraocchi ricamati, lasciando per strada malizia e banalità. Ignoro le provocazioni e i falsi amici. Amo stancamente, in salute e in malattia, in solitudine e in anarchia. Mi abbronzo sotto la luce di un neon metallico.

Il 31 dicembre 1958 Lila ebbe il suo primo episodio di smarginatura (…)In quelle occasioni si dissolvevano all’improvviso i margini delle persone e delle cose(…).
L’amica geniale -Elena Ferrante

Distorco la forma delle nuvole a mio piacimento: un fiore, un drago, un bambino, il profilo di una donna africana. D’altronde del regno della mia fantasia ije song’ a padrona.

Le emozioni sono taglienti come i raggi di un fiocco di neve, una lastra crepata e pesante, una chianca che porto nello zaino insieme alla schiscetta.

Il cuore, quando riesco finalmente a raggiungerlo, oltre siepi spinose e cristalli appuntiti, bolle, come il ripieno del tortino al cioccolato.

Io senza di te sono neve al sole, sono neve al sole…
Neve al sole- Pino Daniele

Lo vedo scivolare via, tra le fessure delle scale mobili, smarginato pur’ esso.

Come un gelato all’equatore.

 

L’uomo dal cuore di ferro

E’ vero, non stiamo parlando del mostro sacro Schlinder’s list e nemmeno del delicato Lettere da Berlino, eppure il film L’ Uomo dal Cuore di Ferro di Cèdric Jimenez, in uscita oggi, meriterebbe una sosta al cinema.

A 72 ore dal Giorno della Memoria per le vittime dell’Olocausto, ben venga una rispolverata di storia. Perché se di fronte ai nomi di Hitler, Goebbels e Himmler, riusciremmo, chi più chi meno, a impapocchiare una risposta, è altissimo il rischio di scena muta di fronte alla domanda:

Chi è Reinhard Heydrich?

ll regista francese Jimenez (e ancor prima lo scrittore Laurent Binet in HHhH, libro a cui la sceneggiatura è ispirata), invece, punta tutto sulla figura di Heydrich (Jason Clarke). Dall’espulsione dall’esercito tedesco a vertici del Partito Nazista, l’ascesa del personaggio è rapidissima:

  • Capo dell’ Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich
  • Governatore di Boemia e Moravia e, soprattutto,
  • la Mente della Soluzione Finale, il piano sistematico di sterminio degli ebrei in Europa.

Siamo a Praga, è il 27 maggio del 1942.

In una curva appena fuori dalla città due paracadutisti diventati “amici di sventura”, Jan Kubiš (Jack O’Connell) e Jozef Gabĉík (Jack Reinor), poco più che adolescenti, aspettano con ansia il passaggio di una Mercedes decappottabile con a bordo la “ bestia bionda”. Si tratta di un attentato a tutti gli effetti, organizzato dalla Resistenza Cecoslovacca con l’appoggio dell’Inghilterra per creare la prima grande crepa nella perfetta architettura nazista.

Più che soffermarsi sull’attentato e sulle sue tragiche conseguenze, il regista scava nel vissuto dei personaggi come a voler afferrare il perché di scelte così estreme e antitetiche (Heydrich vs Jan e Josef; Nazismo vs Resistenza).

“Questi due aspetti della storia sono molto importanti per me –   spiega Jimenez- perché mostrano da una parte l’evoluzione del male e dall’altra parte, troviamo in contrapposizione l’altruismo e la bontà; in entrambi i casi si tratta di cambiare il mondo.         I Nazisti volevano cambiare il mondo a loro immagine, mentre la   Resistenza voleva ripristinare il mondo e ristabilire l’ordine    preesistente delle cose.”

Sin dalle prime scene appare chiaro che Heydrich, dovrà imporre a se stesso una ferrea disciplina, per guadagnarsi l’appellativo di Uomo dal Cuore di Ferro, affibbiatogli dal Fuhrer stesso in segno di stima, diventare nell’immaginario collettivo HHhH ovvero Himmlers’ Hirn heiβT Heydrich il cervello di Himmeler si chiama Heydrich, fino ad essere conosciuto solo come il Macellaio di Praga, al culmine delle persecuzioni efferate.

Un cuore di ferro richiede un impegno notevole: lunghi e silenziosi duelli di scherma. Devozione ad Himmler, che ricambierà questa fedeltà restando accanto alla famiglia Heydrich anche quando gli eventi precipiteranno. Musica classica per favorire strategia e pensiero. Diffidenza, spirito di osservazione, ricatto. Il matrimonio giusto. E’ infatti Lina Von Osten (Rosamunde Pike), bella e carismatica ex aristocratica in cerca di riscatto, ad introdurre Heydrich al Partito Nazista e a regalargli una famiglia ariana da rotocalco, prima di essere progressivamente accantonata e fagocitata dalla sete di potere del marito.

“All’inizio del film la figura di Lina è più forte quella di      Reinhard afferma il regista. Il dramma inizierà a consumarsi nel  momento in cui la figura di Reinhard diverrà più forte all'interno della coppia, lei ha voluto creare un mostro, ma quando crei un   mostro, puoi pure aspettarti che provi a sbranare anche te. Lina  rappresenta l’errore di chi vedeva nel nazismo una soluzione”.

Mentre l’amore tra Heydrich e Lina si consuma lentamente, quello tra Jan e Anna (Mia Wasikowska), una simpatizzante della Resistenza, brucia, aumentando d’intensità quanto più il piano di Jan e Jozef di uccidere la “bestia bionda” si definisce.

Nelle maglie della Resistenza l’atmosfera è tutt’altra. Non c’è tempo per i pianoforti e i violini delle case naziste: l’aria che tira sa di coprifuoco, paura e polvere da sparo. E’ una fitta trama di nascondigli, menzogne, sotterfugi, alleanze, false identità. Ma è anche una realtà affascinante, in cui regnano sentimenti di fratellanza, condivisione, coraggio.

La Rete di Uomini e Donne che si stringe intorno al piano di Jan e Jozef, consacrati a diventare giovanissimi eroi all’ombra di una cripta di una chiesa, ultimo simbolico nascondiglio, non cede. Molti sceglieranno di tacere anche sotto tortura. Altri  preferiranno togliersi la vita con il cianuro piuttosto che consegnarsi al nemico e rinunciare al loro ideale di libertà.

Le conseguenze dell’attentato non tarderanno a manifestarsi. La risposta nazista alla granata lanciata contro  Heydrich fu radere al suolo le città di Lidice e Ležáky, sospettate di aver ospitato cellule della Resistenza e deportare gli abitanti nei campi di concentramento.

Ma era già tardi ormai. Il più alto ufficiale di rango nazista era stato colpito e nulla sarebbe più stato come prima.

 

 

 

Zio Fetentone

Ti lascio andare e ti blocco per sempre. In questo diario congelato e nelle mie orecchie in cui sento la tua voce squillante, le frasi ripetitive e quel tono assertivo di chi si è fatto da solo e la paura non la conosce più.

Aldo Papilettico. Così ti prendevano in giro i compagni di scuola per quelle convulsioni improvvise e incontrollabili, deridendoti, accerchiandoti e poi lasciandoti fuori dal gruppo. Solo. E tu, che avevi sete di vita, hai chiuso tutto quel dolore in uno zaino per diventare uomo in giro per il mondo. Lontano dai bulli, dai medici e dai cocktail di farmaci. Io i barbiturici non li ho mai presi, mi raccontavi, mi facevano addormentare e io volevo stare sveglio, capisci? Barcellona, Stoccolma, Russia, India! Dormendo nei fienili e girando in autostop, con la pancia vuota e l’anima piena.

Da che io mi ricordi sei sempre stato lì, sospeso tra i tuoi racconti e il balcone con l’affaccio a mare, eppure racchiuderti non è facile, mi scappi dal foglio. Ti trovo nella mano del mio primo cartone animato al cinema, una domenica pomeriggio. Ti incontro al mercatino dell’usato, con la lente d’ ingrandimento, la penna nel taschino e il coltellino svizzero. Ti guardo che ti incazzi un’estate, mentre perdi a carte contro il mio fidanzato e metti il broncio tutta la mattina. Ti saluto dal balcone, tu col giubbotto giallo, porti un bambino in spalla, per la mia festa di compleanno. Ti becco a psicoanalizzare gli sconosciuti, mentre passeggi. Ti osservo mentre accompagni sorridente quattro bambini scalmanati al fiume. Ti assecondo mentre mi mostri compiaciuto la tua marmellata di arance. Ti rincorro nella memoria sbarbato, elegante, signorile, forbito, seppur autodidatta. Sempre felice di vedermi.

Vedo una moto che sfreccia, una moglie innamorata, due figli, due nuore, un violino suonato in occasioni pubbliche e private. Hai divorato enciclopedie mediche, setacciato il tuo corpo centimetro per centimetro addomesticandolo come un cavallo imbizzarrito. Hai letto, hai amato, hai vissuto tanta vita (non abbastanza). Hai vinto. E contro quell’ignoranza che ti voleva imprigionare come un baco nel bozzolo, hai alzato la voce, e sei uscito pure su tutti i giornali. La battaglia ambientalista contro il disboscamento di sequoie secolari ha annichilito il Papilettico. Signor Aldo, semmai.

E bravo Zio Fetentone, che oggi mi ha fatto andare storto il caffè e l’ultimo sole di ottobre. Non voglio sapere che è successo di preciso. Ma se dove sei adesso dovesse venirti qualche dubbio incertezza, non chiederlo alla tua enciclopedia, tu chiedilo a Tina.

Pelé

Sono nata nel 1982. I tifosi dicono che non è un anno qualsiasi. E’ l’anno. L’anno in cui l’Italia vinse la coppa del mondo. Sono nata nel 1982, in provincia di Napoli. Per me è normale che, mentre cammini ai Tribunali, ti ritrovi davanti un’icona votiva. Dentro la teca, però, non c’è l’ immaginetta della Madonna, ma un capello del pibe de oro, Sua Santità Diego Armando Maradona.

maradona-capelloMaradona e’ meglio ‘e Pele’ ci hanno fatto ‘o mazz’ tant pe’ll ave’…

Lo stadio? Questo sconosciuto. Il fuorigioco? Un cruciverba lasciato a metà.

Il ritornello Maradona e’ meglio ‘e Pele’, simbolo della curva B degli anni ’90 e colonna sonora della domenica di mio zio Geremia, divisa tra il ragù in canottiera e la radiolina che trasmette la partita, è tutto quello che so di calcio. E soprattutto, è tutto quello che la mia memoria riesce a raccattare su Edson Arantes Do Nascimiento: al secolo, Pelé. E’ con questo bagaglio sgarrupato che mi accosto al film dei fratelli Zimbalist, al cinema dal 26 maggio.

Pelé E’ vero, di calcio non so niente. Ma la fatica la capisco. La corsa contro il tempo, chi si ferma è perduto, fare poco, sempre e bene che a pilo a pilo se fa o’ penniello. Essere figli dei buoni consigli, essere dei buoni figli ed essere, nello stesso tempo, figli di nessuno. Avere fame e sete. Solo la fame di autoaffermazione, oltre la coltre dei sacrifici paterni, ti fa correre sulla breccia senza scarpe, ti fa usare un mango al posto di un pallone, ti fa tirare calci contro un palo per tutta la notte, per quella rete che verrà, se verrà, dovrà venire.

E’ nell’assenza di limiti fisici e mentali che Pelé diventa Pelé. Non si tratta solo di essere i più dotati del villaggio. E’ prendere coscienza, resistere nel corridoio della diversità, sapersi fermare, mettere a fuoco l’azione che verrà. Prevedere, vedere oltre, immaginare, sognare.

Nel flamenco, si giudica bravo un ballerino si tiene duende. Il duende è quello spirito, quell’anima, quel sentire tipicamente flamenco, quella strana alchimia tra dolore e passione, quel guizzo che tutti riconoscono, immediatamente, nell’intenzione creativa di Joaquín Cortés, per esempio.

Nel calcio brasiliano, questo quid, questa frenesia tipica si chiama ginga. La ginga è il passo base della capoeira, ma ci suona più familiare se pensiamo ai tentativi di palleggio fatti in tutti i cortili del mondo tentando di imitare quel calcio grezzo e acrobatico, colpo di testa, palleggio, pressing veloce, dribbling aggressivo, tiro spettacolare dei nostri padri, zii, cugini, compagni di classe, amici.

La ginga non è solo uno stile di gioco. E’ un modo di essere. E’ bandiera, fischietto, musica, danza, favela, corsa, risata, carioca. E’ la radice.

E’ l’unica arma di cui Pelè, a soli 17 anni, può disporre per uscire e fare uscire il Brasile dal senso di inferiorità in cui versa dal 16 luglio 1950, anno del Maracanazo, l’ epocale sconfitta contro l’Uruguay.

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Ma dove vai, se la squadra non ce l’hai? Non si diventa campioni da soli. Pure Pelè ha bisogno di un altro in carne ed ossa che gli passi metaforicamente la palla, riconoscendolo, legittimandolo, affidandogli la responsabilità, il rischio del tiro, l’ebbrezza della vittoria, la celebrità.

Senza Josè, non c’è Pelè. E’ solo quando il suo rivale d’infanzia, il bianco su cui l’allenatore aveva puntato tutto nel campionato contro la Svezia, il giocatore che aveva sempre sognato di essere europeo, lo esorta ad usare la ginga e a scendere in campo da brasiliano che Pelé può finalmente giocare come Pelé.

E’ il 1958 e il Brasile è il primo paese sudamericano a vincere su suolo europeo. Tutto il resto, per chi ha la fortuna di non avere un bagaglio calcistico sgarrupato come il mio, è storia. Come il 1982, non un anno qualsiasi.

Come saltano i pesci

Unirsi al branco o saltare fuori dalla rete? L’importante è vivere

Matteo (Simone Riccioni) è un bel ragazzo che vive in una famiglia quasi perfetta. Occhi a mandorla, fisico nervoso e una cascata di riccioli neri per cui la postina del paese Francesca (Sarah Maestri), farebbe carte false. Ma Matteo, non se ne cura. La sua è l’ingenuità del bello inconsapevole. Ha una vita piena: si barcamena tra l’officina ereditata da papà Italo (Giorgio Colangeli) e le commissioni in furgoncino con Giulia (Maria Paola Rosini), la sorella minore con sindrome di down, che, terrorizzata dal distacco, boicotta in tutti i modi la sua partenza per Maranello e il sogno di diventare meccanico della Ferrari.

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Angela (Marianna Di Martino) ha talento per il disegno, un’anima romantica corazzata dietro un look ribelle, una magrezza eccessiva e la voce graffiata. Dorme in un garage, è senza quattrini e frequenta tutti i rave del marchigiano. Sempre in fuga e alla ricerca di nuove emozioni, è la pecora nera di una famiglia imperfetta.

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Sandro (Biagio Izzo) è un giocatore d’azzardo. Le carte sono il suo unico mondo. E’ un battitore libero, uno che in famiglia ci è finito per sbaglio. E’ al bar che torna dopo essere stato pestato a causa di chissà quale debito e, chiuso in uno stanzino senza segnale, non fa in tempo neppure ad accorgersi che la moglie è morta e il figlio Luca (Brenno Placido), sta tornando dopo molti anni per mare.

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La morte della moglie di Sandro scuote irrimediabilmente le vite di tutti i personaggi. Matteo scopre da una telefonata improvvisa che Mariella (Maria Amelia Monti) non è la sua madre naturale e decide di intraprendere un viaggio verso la verità del suo passato.

Matteo non sa dell’esistenza di Luca. Luca invece, ha sempre saputo di Matteo e ha trascorso l’infanzia all’ombra del ricordo del fratello. L’ottimismo del primo e il doloroso cinismo dell’altro dovranno fare i conti con questa nuova situazione.

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Le tensioni di un passato ricco di segreti, tradimenti e gelosie, non sembrano sopirsi. Tra gli adulti va peggio che tra i ragazzi: il funerale finisce addirittura “a mazzate” tra i due papà Italo e Sandro. Solo lo spavento causato dalla scomparsa della piccola Giulia, muove questo caotico (ma molto simpatico) agglomerato di persone verso un obiettivo comune: nella ricerca della ragazzina ognuno sembra ritrovare il bandolo della propria identità perduta. Angela, che imbambola ora Matteo, ora Luca, spandendo ferormoni e fluido seduttivo, distrae da un finale troppo denso di colpi di scena e intrecci. Ma né la liason amorosa né il possibile triangolo tra Angela e i due fratelli sono il focus del regista Alessandro Valori.

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Ciò che conta è il salto finale, la corsa liberatoria verso il mare,  è come reagiamo agli imprevisti e alle sbavature della vita. Come ci rialziamo. Come ci rimescoliamo.

Come saltano i pesci è un bel mosaico di strategie di sopravvivenza: come i pesci nel mare, c’è chi si unisce al branco e chi prova a saltare fuori dalle reti. L’importante è restare sempre a galla ed imparare ogni volta a vivere.

Consigliato a: chi cerca un film leggero e garbato, italianissimo e moderno, con molti spunti di riflessione su temi non banali; ai voyeur della fiction di casa nostra che troveranno il casting molto interessante.

Dal 30 marzo al cinema

Nanniné

IMG-20160103-WA0015Avresti voluto vedermi con l’abito bianco Nanninè non senza la raccomandazione che marito e moglie devono stare accuciunegliati, vicini vicini, come cuccioli. Come i conigli.

Ma quando anni fa mi lasciai col fidanzato abbandonandomi sul divano alzasti il telefono e dicesti: uè devi uscire a nonna, che devi fare a casa, piangerti a Carnevale?

Il significato dell’espressione chiagnere Carnevale ancora non l’ho capito, ma devo ammettere che, evocandomi l’immagine di maschere mostruose e sofferenti, fosti molto incisiva.

Mi sono chiesta che ne sapevi tu della vita di coppia, rimasta vedova con quattro criature piccerelle a trentatré anni, l’ ann e Crist, la mia età di adesso.

Non uscirò alle 4 del mattino a fare le pulizie delle Ferrovie dello Stato portandomi a casa carta igienica ruvida e spessa. Non dovrò stare in guardia da uomini insidiosi lungo vagoni bui e fetidi e andare a dormire alle nove di sera morta di stanchezza. E questo anche grazie a te.

E come tua figlia Romilda anni dopo, ti votasti a quella legge monogamica e monoteista che avevo già sperimentato con l’altra nonna: unico Dio, unico uomo.

Come se stesse scritto nelle stelle che queste donne del Sud della mia famiglia dovessero rimanere sole un poco a litigare, un poco a farsi compagnia profondendo intorno a loro un amore quasi teatrale, una voragine affettiva che, come l’onda del mare, risucchia e butta fuori.

La tua esperienza in fatto di coppie era certo frutto del consumo vorace delle telenovelas di Grecia Colmenares. Manuela, in cui la stessa protagonista aveva i capelli sia biondi che neri,  era una nostra passione comune. Che soddisfazione per te quando dopo un’estate trascorsa fuori al balcone a studiare copioni passai il test di Un posto al Sole!

Di nonno Marcello parlavi raramente, troppo presa dall’affollato presente: i figli, i nipoti, le amiche della chiesa, le letture e le canzoni sacre che canticchiavi mentre stendevi e ritiravi il bucato bianchissimo, facevi le verdure arrostite, ti succhiavi le teste del pesce e riordinavi cassetti e mobili, la tua ossessione.

Tu sei la mia vita, altro io non ho. Tu sei la mia strada la mia veritaaaaaaaa….

A un certo punto hai smesso di fare i succhi di frutta, le melanzane sott’olio e le alici marinate. A un certo punto gli anni sono scivolati tutti nella bottiglia di vetro della Zuegg e non mi accompagnavi più a messa tenendomi per mano, consentendomi persino di rimproverare per la loro volgarità le vecchie che entravano nella chiesa di Pugliano con le calze rosse. E quella mia nipote va a scuola dalle suore, le studia queste cose.  Alle tue figlie non consentivi nulla, dovevano solo scattare. Titina, Romilda e Anna: tre api operaie intorno all’unica Ape Regina che eri sempre e solo tu. Avevi una mente geniale, vigile, scientifica, lo sguardo vispo, un’innata attitudine al calcolo e una personalità fragile che la vita aveva reso dirompente. Eppure l’italiano scolastico di una bambina come me, quell’italiano che dominavi poco ed esibivi nelle occasioni pubbliche modificando anche il tono della voce, ti ammaliava quasi fino a soggiogarti.

Io non ero per te solo la figlia della figlia Anna, che porta lo stesso nome della mamma e della nonna, ero anche un incantatore di serpenti. Ero il riscatto, ero l’eccezione, ero il futuro. Non come i gingilli che custodivi gelosamente nelle vetrinette. Io ero la bomboniera che poteva andare in giro per il mondo, a cui tutto era concesso. Lasci’ a sta, lasciala stare, Annù.

Le tue figlie no, dovevano stare là a raccontarti pedissequamente le nostre vite e a contare cento volte Babbi Natale e Uova della Kinder che facevi trovare a nipoti, pronipoti e fidanzati in tutte le feste comandate.  E con i racconti e con quella scappata che tutti facevamo di ritorno dalla Lombardia, dall’Emilia, dalla Toscana eri una donna a modo tuo felice e appagata.

Mi mancherai Nanninè. Mi mancherai sia dolce che sfrenata. Sia elegante che con la camicia di notte di lino. Mi mancherà la tua personalità ribelle. Tua la risata, lo sfottò, la malaparola, il calore della grande casa nel rione più elegante che potevi sognare, le manie da protagonista, la fissazione della magrezza e dell’abbronzatura. Il ricordo di un poco di mare con te sullo scoglietto del Pezzolo. Gli occhi pieni di vita sciagurata ma sempre brillanti.

Hai sempre rifiutato gli orpelli, gli ausili e le protesi. Mai la dentiera, mai l’apparecchio acustico. No ai cerotti, alle coperte, gli aghi, no all’ossigeno. Pure in fin di vita. Ti abbiamo dovuto mantenere le mani.

Grazie per avermi comunicato il sentimento di essere importanti ed indispensabili. E soprattutto, grazie di aver colto la mia difficoltà a farmi spazio nei buffet, familiari e non. Che motivo avevo di allungare la mano, se dietro le spalle c’eri sempre tu che mi riempivi il piatto alluccando mangia e Min’ncuorp ?

Ruth & Alex

Tra la Brianza e l’Adda cerco la mia Brooklyn

Solo a Milano ho cambiato tre case. Poi mi sono trasferita a Monza e nel weekend faccio avanti e dietro dalla campagna, nell’Adda. Cinque case in sette anni fa in media una ogni anno e mezzo. La rivoluzione non è il numero, ma chiudere la porta dell’attico vista Darsena e spostarmi in periferia.

Te ne vai in Brianza, sei pazza?! Lì sono sfondati di soldi, provinciali, vivono per le apparenze, cattivi. Sì, cattivi! L’hai visto il film il Capitale Umano? Ma che ci fai sull’Adda? Non sei tipa da fare marmellate nel weekend.

Buon Dio: cosa c’entrano le marmellate?

Con queste premesse la frase di Morgan Freeman che apre il film “Ruth e Alex, l’amore cerca casa” di Richard Loncraine avrei potuto pronunciarla io, tale e quale, alla vigilia del mio trasferimento.

Quando io e Ruth ci trasferimmo a Brooklyn, era una sorta di avamposto. Per i nostri amici di Manhattan era come se ci fossimo trasferiti in Nebraska. Non era di moda, ma era un posto giusto per artisti in difficoltà come me e poi a noi piaceva, il che non guastava perché era il massimo che potevamo permetterci.

Ruth (Diane Keaton) e Alex, insieme da quarant’anni, decidono di mettere in vendita la loro casa in un condominio senza ascensore perché sono diventati vecchi e non ce la fanno più a fare le scale. In realtà, come avviene in molte coppie, è lei a fare pressing per dare una svolta alla loro relazione, solida ma senza dubbio agèe.

Lui non è convinto. Ama il suo rituale quotidiano scandito dalla passeggiatina col cane Dorothy, la colazione take away, il Tg sul divano, i pomodori in vaso sull’attico only- in- New York, dipingere quando gli viene l’ispirazione (uomini, udite: sua moglie dopo quarant’anni è ancora una  musa).

Tutto si svolge in tre giorni. Se si osservano Ruth e Alex sembrano trascorrere trent’anni. La sfida di formare una coppia interraziale, di affermarsi come professionisti di successo e forse anche la nostalgia di un figlio. Se si osserva Lily (Cinthya Nixon, Miranda di Sex and the City), nipote di Ruth ed energico squalo dell’immobiliare, tutto sembra dover accadere in tre minuti.

Tanto la loro storia appare lenta e il loro legame granitico, tanto New York convulsa e inafferrabile. Taxi fermi ai semafori, attentati terroristici, guerre tra agenti immobiliari, appartamenti aperti a “visite libere”, ovvero invasioni di sconosciuti che dopo aver testato la comodità del letto (il tuo letto) per qualche ora cominciano un’ asta all’ultimo sangue.

Alla fine la spunta lei, Ruth/Diane, di cui Alex è ancora innamoratissimo e di cui Freeman, attore e produttore esecutivo del film, è sempre stato fan: “è stato una gioia farle la corte”. Ma è proprio quando Alex decide dentro di sé di valutare l’appartamento scelto dalla moglie che qualcosa cambia e la coppia si ritrova di fronte ad un nuovo punto di partenza.

Il film, tratto dal romanzo “Heroic Measures” di Jill Clement sembra volerci  dire che per capire cosa davvero ci rende felici bisogna rischiare e provare. Potremmo accorgerci che ciò che avevamo sempre desiderato è proprio sotto i nostri occhi.

A proposito, qualcuno sa se a Milano esistono le “visite libere”? Chiedo solo per curiosità. Sai mai che mi dimentichi le marmellate sul fuoco..

Consigliato a: chi non cerca un polpettone esistenziale e vuole rilassarsi. A tutti quelli che cercano casa e vivono una fase di impasse. A chi non crede che possa esserci qualcosa dopo il basic instinct.

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L’attestato

Quando la disoccupazione è un plus

Denise ha fatto il corso col pancione e suo figlio Dieghino – per non confonderlo con Diego, il nostro imbianchino 2.0 e cavallo pazzo della rete – è veramente un nativo digitale.

Stefania è un ex store manager. L’unica tecnica di sales che le consiglio di conservare nella sua second life professionale è quel sorriso che non ha bisogno né di luminosità nè di contrasto.

Vagabondare tra pizzerie, mense e caffè in compagnia dei Rumors (Sabrina, Elisa, Mauro, Pit e Monguzzi) è stato il migliore piano editoriale sul food che potessi mai realizzare. E quando mi hanno hackerato l’account Gmail e Lorenzo mi ha preso la mano in segno di profondo cordoglio ho trovato  questo gesto davvero responsive.

Giulia e Milva, nell’Edgerank, la classifica globale, sono quelle che mi hanno ricordato di più la me che ero. Quella caparbietà sognante, il ditino furioso sulla tastiera, la risposta che non basta mai. Le avrei assunte subito.

Ma io, che imprenditrice non sono, al massimo ho snocciolato a Francesca e Arianna consigli su come diventare una stageur di successo o fare tre colloqui nello stesso giorno senza farsi prendere dal panico.

Tra un #ashtag e l’altro c’è pure chi ha parlato di radici e  poeti. Spero che Giorgio, il nostro Consigliere Provinciale, tenga sempre lo sguardo alto (agli ideali) e mai basso (al seggio). Stefano, il capoclasse, non ha bisogno di annunci sponsorizzati. Faccia pulita, nordicità user friendly, lui è la conversione.

Non tutto è ancora finito. Ho in serbo una guerriglia con Pozzoli e Christian degna del migliore storytelling. Combatteremo contro chi, dopo averci fatto scannare come agnelli a Pasqua, ha ritirato il reward, la ricompensa.

E ci ubriacheremo tutti con un bel vino di Cigognola campagna si, campagna no, se famo du spaghi. E pure un selfie.

Questo per me è veramente social. Averli conosciuti ed aver imparato a condividere uno stato, una contingenza -la disoccupazione – e averla trasformata in un valore. Più che di marketing digitale, questo è un attestato sulla resilienza. Si chiama così la capacità di ricostruirsi nelle avversità?

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