Category: Sud

Io, tu e Pasqua

E fu così che neanche il tempo di dire ciao a natale dissi: facciamo Pasqua tre da me e tre da te. E quel che resta di otto giorni viaggi inclusi:

#campania

La prima uscita a quattro dopo dieci anni. Dieci anni per essere nello stesso “stato sentimentale impegnata” e non una gaudente e l’altra gemente e piangente in una valle di lacrime.

E’ un’emozione che cresce piano piano. Ma a Pasqua no. Che confusione l’arrivo il sabato santo nel mezzo della VISITA. Sipario già alzato su pizza e maccarun’, torta pasqualina, casatiello dolce e salato e pastiera uno e pastiera due. Squilla il telefono, bussa il citofono ed ecco la vicina con la numero tre, pronta a barattare con il ruoto della concorrente. Che vinca la migliore in questo masterchef perpetuo e Dio la mandi buona a noi cavie della tavola imbandita, vittime sacrificali di ricotta e millefiori.

La messa di Pasqua io mammet’ e tu, il vento e l’odore della salsedine che si infizzano sotto le porte a vetri e si azzeccano sui boccoli delle paesane vestute affesta.

Il tavolino in piazza con gli amici per l’aperitivo della mattina che di sera è tale e quale al bistrot qualche metro più in là. Ma Roberto stavolta mi scappa.

Quel mazzolin di fiori che vien dalla montagna. Te lo voglio regalar.

Il sole sulla terrazza in cui sono sempre più segni che risvegliano sogni ormai sopiti. Il compostaggio con i lombrichi.

#puglia

Il tempo delle belle notizie che riempiono il cuore di gioia e cambiano i colori del mondo. Il tempo dei blocchi che non danno tregua. La sciatica impazzisce e su e giù due volte al giorno al tempio del Dottor Ho, il santone degli aghi e delle torture cinesi. Dalle cellette di questo appartamento riadattato a “clinica riabilitativa cinese” senza fattura, urla sovraumane, odore d’alcol e di brodo di pollo, la tv con Bonolis e la sellerona negli anni 90, barattoli di vetro infuocato che tirano via i mali del corpo. Per la frequentazione assidua vinco un kit di radici per il raffreddore, il posto d’onore sulla sedia accanto a uomini ridotti come porcospini e imbambolati da musica zen e coperte calde. Il dettaglio glam: salviette inumidite all’olio di mandorle, introvabili.

I ricci, seppur dalla poltrona ortopedica e senza vista mare,  che si possono mangiare solo nei mesi con la erre a causa del fermo biologico, ce li facciamo portare a domicilio.

La levetta del cofano si scassa e dopo i quattro giorni trascorsi nella tenuta di campagna tra calle, olivi, cicorie, cime di rapa, fave appena colte, fucazz in tutte le salse, ci agghindiamo l’auto con tutte le valigie a vista e ce ne andiamo. Siamo l’orgoglio di tutti i terroni.

Siamo in tre. Il mugolio di Vicky ci accompagna in tutto il percorso, misto ad arrampicate sul cartone della scatola che abbiamo usato per il trasporto. La prima volta che rapisco una gatta per regalare un sorriso a un adolescente.

Il confine tra Puglia e Campania, lo vedo sotto i goccioloni dello specchietto retrovisore. La mia prima guidata da viaggio attaccata allo sterzo e con la mandibola gonfia d’impegno.

C’è ancora la consegna da fare e poi via dalla vita di mai verso la vita di sempre in un eterno risciacquo.

Vorrei tornare a essere una ragazza, quasi selvaggia, aspra e libera, che ride delle offese e non ne impazzisce. Emily Bronte, Cime Tempestose.

Ma è già tempo di compleanni ed entro da funambola nei miei trentadue anni.

Canto di Natale

Caro Gesubambino,

questo Natale è iniziato caseriando, l’abitudine che ci sta qua di andare casa per casa a fare le visite. In queste case fa sempre freddo e in alcune si fuma pure dentro e allora non resta che mettersi in un pizzo (angolo) e ingannare il tempo – il tempo lento del Sud- con caffè e mustaccioli.

Sul salotto di mia nonna si litiga perchè quest’anno il fornaio ci ha fatti fessi. L’impasto dei roccocò non suona in bocca e ci sono troppe poche mandorle. Solo mia nonna, caro Gesubambino, riesce a mangiare i roccocò senza denti e solo a casa di mia nonna, la pizza di scarole cresce, riuscendo a sfamare dodici persone, tra cui la zia zitella di turno e la sora cucina – essì perchè qua i cugini delle vecchie generazioni sono sore e fratri – che non perde mai l’appuntamento.

Comunque se non ci credi che la pizza cresce, tu che fai i miracoli, vieni a mangiarne una fetta pure tu, ma te lo dico già, non lamentarti di uvetta passa e pinoli perché mia nonna Anna, che si chiama come la madre e la figlia, non vuole sentire ragioni sull’alterazione delle ricette tradizionali.

Io intanto, mi sono dimenticata la patente a Milano, ho guidato lo stesso su una strada che sembra che l’acqua di mare ti entra nella macchina, ho risentito lo squillo del telefono fisso e delle ripetute, incessanti bussate di porta e di citofono, ho avuto due tre crolli narcolettici e sono pure caduta malata.

Quello che mi è dispiaciuto quest’anno caro Gesubambino è non averti visto nascere e non aver ascoltato con la candela accesa in mano la storia della mangiatoia e del bue e l’asinello che mi piace sempre tanto.

Ma per sopportare pure il freddo della Chiesa, caro Gesù, ci sarebbero volute tre confezioni di Tachipirina e lo sai che io li odio i farmaci.

Il problema di qua non è mai fuori, è sempre dentro. E’ proprio una questione di umidità e di rifiuto ancestrale del termosifone.

Comunque caro Gesubambino se ti ho scritto queste cose è solo per dirti che anche con il freddo addosso io questo Natale svuoto il mio cuore e te lo dedico.

Riscaldalo, mettici il buio e la luce, i pinoli e l’uva passa, l’umiltà, la speranza e la voglia di amare. Toglici l’insoddisfazione, fai crescere e moltiplicare questo cuore come la pizza di scarole di mia nonna e danne una fettina in grado di saziare l’anima di tutti quelli a cui voglio bene.

Buon Natale,

Merincontraria

Lo scoglio


Sullo scoglio ci vai quando l’estate è finita, le idee sono confuse e le giornate destrutturate. E tu galleggi nell’ oceano dei milioni di possibilità con cui riempire il tuo tempo.

Ma almeno, nell’attesa dell’ Expo 2015, ti fai i bagni di Settembre. Bagni con l’acqua fresca che ti fa campà cent’ anni, come urla il signore chiatto che sguazza sotto lo scoglio una domenica qualunque:  Mariaaa, tengo ancora a’ besciamella ‘ncopp o stommaco!

La gente dello scoglio è sempre la stessa come nel sequel marino dei Ragazzi del Muretto. C’è il musicista jazz che collega al telefono una cassa senza fili e ci fa ascoltare la Radio Cafè de Paris. C’è la coppia dell’ infermiera incinta+lui disoccupato che studia una tesi comprata su Tesi on Line dopo essersi fatto una canna in riva al mare, come se noi non ce ne accorgessimo. C’è Lidio che fa pulire tutta l’estate la spiaggia al figlio down e se non ci stiamo attenti la sera si fa pure la doccia col bagnoschiuma e si risciacqua nell’acqua di mare. Un tempo c’erano pure mio fratello e Pasquale la mutanda, ora non ci sono più. Mio fratello ha trovato lavoro. Pasquale, forse, non avrà più mutande da mettersi al posto del costume.

Sullo scoglio non nascono amicizie. Solo condivisione dello Scoglio la cui acme si verifica durante i periodi di bassa stagione, in cui l’esperienza comunitaria si rafforza perchè proibita alle masse.

Lo scoglio, quando non ci sono i zulù che lasciano i profilattici, è soprattutto un’esperienza di meditazione e solitudine.

E quando non vuoi parlare ti porti un romanzo di Muriel Spark, poi uno di Patrick Dennis, ti tieni i tuoi cinque chili in più e un amico che ti saluta dicendoti “dovresti fare attività fisica”.

E questo dovresti, va ad accumularsi al resto della lista elaborata sullo scoglio:

  • godere un periodo di meritato riposo X
  • metterti a dieta X
  • scrivere un libro
  • trovare un parrucchiere che sa tagliare i ricci@Sud
  • farti facebook
  • iscriverti a un mega concorso pubblico X

conciliando il tutto con la vita da casalinga e lo scoglio, appunto, due tre ore a settimana per mantenere il colorito e dare l’aspetto di una che riesce a godersi i piccoli piaceri della vita anche nei momenti di intermezzo.

E sullo scoglio, capisco poi che scelta è tutta qui. Tra un affogato al tramonto e un eyebrow bar.

La sindrome di Trilly

E’ sabato, ha piovuto senza arcobaleni e c’è quel fresco di settembre ma senza cambio di stagione. Attacco la faccia allo specchio e incalzo col rimmel. Quando si va a un concerto, pure se è un concerto della provincia, pure se è un concerto di un Sud dimenticato, ci vuole quella religiosità nel trucco come quando vai a un matrimonio. Mi metterei pure i tacchi. Per devozione. Ma alla fine mi accontento della matita sotto e sopra. Ed esco.

I ragazzi del Sud ondeggiano. Quelli con le felpe dell’Adidas si mescolano ai modaioli con la cresta, ai tossici, ai pazzi del paese e una ragazza in tailleur, calze nere avvolte in scarpa rosa (!) balla su un ritmo ska. Tanto, è gratis. Ci mescoliamo tutti. E poi, chi è che non sa il ritornello di curre curre guagliò. Basta essere cresciuti nel girone dantesco degli anni ’90.

Tra la folla, a zig zag, passano i venditori di birre. Carrelli artigianali, come quelli dell’aeroporto, una tinozza piena d’ acqua in cui galleggiano bottiglie di vetro e lastre di ghiaccio contro ogni norma sulla sicurezza. La parte superiore del carrello è illuminata dalle stesse luci che si usano nei pub per scrivere “open” e gli ambulanti si infilano tra la gente gridando: Una dueccinquanta, due cinque euro!

Centro sociale occupato, Centro sociale occupato…

-Tu arrampichi?

-No, cammino.

In genere i ragazzi e le ragazze del Sud non ti chiedono mai che lavoro fai o di che ti occupi come prima domanda.

-Sai, io e Stecco (?) stiamo cercando un corso per acrobati.

-Prova a Napoli. Non sarà il Cirque du Soleil però ‘ste cose qua ci stanno.

-Ho bisogno di sentire il corpo…

Mi vengono in mente le sere al Carroponte a Milano, l’erba rasa, i divanetti di design, i bicchieri di plastica/Mi ricordo di tutta la mia adolescenza di concerti a calpestare bottiglie di vetro a cui non facevo caso.

Guagliò gliò gliò…

Prendo il cellulare e digito il numero di un amico per fargli ascoltare le canzoni dei 24 Grana che ascoltavamo sempre in Erasmus in una stanzetta fredda o stesi sull’erba evitando accuratamente che le nostre anime si sfiorassero.

Questa canzone qua, non la sentivo da quattro anni.

Le parole affiorano, altre restano internamente, nebulose, bloccate nel passato. Ondeggio. E mi viene il latte alle ginocchia. Proprio i brividi.

E allora penso a Peter Pan e l’isola che non c’è, un libro che mi hanno regalato, finito per sbaglio tra gli scaffali dei volontari dell’Aids e che sto proprio là. Nell’isola di una seconda adolescenza. Ondeggio. E dentro mi sento più Trilly col trucco sciolto che, come si dice mò, single di ritorno.

Fame d’amore

Serena l’ho conosciuta sulla Sita per Amalfi. Uno di qui bus affollatissimi, tutte curve e il conducente che canta O’ Sole Mio per i turisti americani. Roba da cartolina.

Serena sale con una bella vecchia abbronzata che non si è mai mossa dalla sua loggia, la terrazza che affaccia a mare e non è mai stata neanche a Sorrento perché lei, racconta, quando era giovane, con tutte le mamme pigliavano gli appuntamenti sulla spiaggia di Praiano e si facevano il bagno a mezzanotte.

Sapete, io senza mare pare che mi manca l’aria.

Ma a Serena non gliene frega di questi discorsi sul lifestyle. Il suo mondo è tutto nello zainetto e nel cellulare. Digita nervosamente e continuamente qualcosa sui tasti. Ma quando arriviamo a Maiori? E scrive.

Ad Amalfi me la ritrovo davanti, aspetta pure lei la coincidenza. Non capisco quanti anni ha e quanto pesa. Vent’anni? Cento chili? Non so.

E sbuffo.

Sto scrivendo al mio ragazzo se ci viene a prendere ad Amalfi, così ti dà pure a te un passaggio.

Ragazzo?Ci? La sua spontaneità mi paralizza.

Vuoi una caramella? Io sono capace di mangiarmi tutto il pacco in mezz’ora. E butta giù una Fruit Joy.

Serena mi accompagna in bagno e poi mi aspetta sotto le scale del Duomo. Abbiamo firmato il patto di sangue delle donne alle prese coi viaggi della speranza. Ormai siamo una sola cosa.

Hai fatto subito. Uah. Ti piace? Io mi giro verso il Duomo e lei, invece, mi mostra sul cellulare la foto di un pendaglio.

E’ madreperla, l’ho regalato a mia suocera per il compleanno. Sono quattro mesi che sto in casa. Lui da me non viene. Ho avuto troppo una brutta delusione da un altro che mi ha riempito di corna e ha parlato male della mia famiglia.

Ci vuole un pò di tempo per dimenticare queste cose – faccio io, empatica.

Quando mai. Dopo due giorni già stavo con il mio ragazzo di mò perché ci sentivamo anche prima e lui sa tutto di quanto il mio ex mi ha fatto soffrire.

Ancora un messaggino.

Il mio ragazzo mi vuole cucinare pasta e cipolla ma io i legumi non li mangio a meno che non ci metti un quintale di parmigiano.

Ma le cipolle non sono legumi! Obietto.

Vabbè, non mi piacciono lo stesso. Per il nostro anniversario di dieci mesi mi ha regalato tre rose rosse.  Vedi, basta trovare la persona giusta.

Già. Ma oggi andate a mare?- chiedo.

No, stiamo a casa sua, in montagna. Stamattina alle 7 mi ha detto che teneva la macchina e io alle 7.30 avevo già fatto i piatti a mia mamma ed ero pronta. Alle 8 già stavo sul pullman. A volte lo piglio anche alle sei e mezza.

Allora sei proprio innamorata- faccio io.

Serena mi guarda dietro le sue lentiggini con un mezzo sorriso e gli occhi azzurri grandi grandi.

Prende una Fruit Joy e mi passa il pacchetto.

Non ti innamorare di uno di Amalfi – si raccomanda. Dopo come fa a venire fino a dove abiti tu. Io e il mio ragazzo ci vediamo solo due volte a settimana.

E tu hai sempre fame, fame d’amore, vorrei aggiungere.

Ma sono arrivata, Serena mi ha già chiamato la fermata e ripreso a messaggiare affannosamente.

Foto di Nicola Giuliano