Category: Ritratti

Argeo

In un tamarindo affogherò risate amare

Se me lo avessero raccontato, caro il mio Argeo, che avrei cominciato così presto a scrivere coccodrilli per gli amici, mai ci avrei creduto. Mai.

E invece eccoci qua. Sono trascorsi sei mesi da Santo Stefano  e qualcosa che somigli ad una casa vera ce l’abbiamo.

Hai visto? Nun sugnu accussì scunchiuruta.

Ci sono i mobili, non solo tre lattine di vernice MaxMeyer sul pavimento. Gli scatoloni che si moltiplicano e “crescono” come la pasta Barilla sono scomparsi. Insomma, non è più lo scenario postbellico in cui hai deciso di tirarci il pacco. Perché non bastava il Natale ora et labora mio e di Nicola in un’atmosfera a metà tra una Betlemme naif e una Baghdad occupata, no! Tu il giorno di Natale dovevi proprio chiudere il sipario! Ovviamente perché potessimo ricordarne l’impatto per i prossimi cent’anni.

D’altronde cosa avremmo potuto mai aspettarci da uno che si fa chiamare ARGY LE BON?

Sei mesi.  Inutile provare a dimenticarti. Troppi anni, troppa vita, troppe cose.

Le cotolette impanate dal macellaio, le casse d’acqua nel bagagliaio dell’auto, la visita all’Albergo Diurno di Porta Venezia, i sacchi neri con le scarpe spaiate del tuo trasloco, guardare Milano attraverso una veranda, Catania, unni vinni maritata pe tia ca ti maritasti, dieci anni dopo.

Entri nei pensieri con lo stesso prepotente candore con cui distruggevi i cornicioni della pizza e salivi sul palcoscenico;  spiazzante e impavido,  condividendo senza filtri tutte le versioni di te.

In piedi, single, portiere d’hotel, in sedia a rotelle, sposato, trapiantato, in coma, a tempo indeterminato, dializzato,  miracolato, innamorato, amareggiato, innamorato.

L’andatura lenta, il borsello, il cappello e le scarpe jazz.

Alduccia ti piacciono? Sono artigianali, disegnate apposta per me.

Hai spolpato la vita come un osso, almeno quanto lei ha spolpato te, Argeo. Non hai perso, al massimo è finita in pareggio.

E cosa vuoi che sia salire sul palco, dimenticare una battuta, fissare il vuoto e poi, sorridere. Provarci sempre, arrendersi mai. In scena fino alla fine, le gambe per conto loro, le orecchie pure, ma il cuore, anche quando eri più fragile non ti ha mentito mai.

Ciao Argeo: affettuoso, seduttore, tentacolare, galante, istrionico, bizzarro, dilagante, pragmatico, irascibile Argeo.

Desueto come i mobili antichi, puntuale come un dandy britannico, incompreso come le persone perbene, inguaribile bevitore di Coca Cola, paladino del posto fisso. Onnipresente, intelligentissimo. Je pe me, tu pe te. 

Avventuriero, cacciatore di anime, aggregatore di umanità, un cane da tartufo che punta e non molla. Un tipo strano, per alcuni.

Un amico d’onore. Questo era Argeo per me.

Oggi è il 5 luglio, è il tuo compleanno.

E allora, caro il mio Argeo, dopo le piscine sull’Adda e le campagne di Fiorenzuola, festeggiamo pure quest’anno.

E poi ci incontreremo come le stars a bere del whiskey al Roxy Bar. (Pensa quanto bene ti voglio per dedicarti Vasco).

I ricordi della nostra Sicily, del tamarindo chiosco, della vita spericolata, sono ormai passati. E’ tempo di voltare pagina: voglio una vita, vedrai che vita vedrai, uh.


 

Taha

Il nostro grande amico Aljalal

Caro Taha,

oggi mi sono fermata a pensarti e ho bruciato il risotto.

Mi sono chiesta se i Giardini Eterni sono così pieni di rose rosse, spinose e con petali carnosi, come me li immagino. Mi sono chiesta se c’è una porta coperta d’edera e rampicanti che collega i Giardini al Paradiso e mi sono chiesta come fluisce questo Immenso Spirito che effonde da Allah a Dio e, se per caso, in questa nuova vita riuscirai ad incontrare le mie nonne.

Nell’eventualità, ti prego, racconta loro dello Yemen, come tu sai fare, incantale con gli aneddoti della tua cultura millenaria, trasmetti loro l’ardente bellezza della tua città, Sanaa, come hai fatto con noi,  ma ti avverto, squittiranno impaurite per la Jambiya, il pugnale che voi yemeniti vi infilate nella cintura, borbotteranno sul velo delle donne per una questione di hairstyle – soprattutto nonna Dina che dorme con “la retina” e i becchi di cicogna per non rovinare la messa in piega – e non riuscirai a sedurle con le tue innumerevoli spezie.

Nonostante siano entrambe teledipendenti, non si faranno stregare dalla tua partecipazione a Masterchéf e rivendicheranno contro i tuoi manicaretti serviti in regali impiattamenti, la superiorità di una bella tiella di  puparuol’ e patan’ o uova all’intrippatina.

Ecco te l’ho detto: sulla questione cucina loro sono proprio come quella parola abusata e impropriamente usata… Talebane.

E invece, alla faccia del picco glicemico, quanto vorrei vederti arrivare con un vassoio di tè yemenita, il latte,  le zollette di zucchero, i bicchierini dorati, mentre guardiamo le foto del vostro matrimonio e tu alla fine ci distrai con il video del  cartone animato di una formica poliglotta da propinare ai tuoi studenti.

E di quando sei andato in fissa con Google Maps?! Con quale sudditanza io, Nicola e Laura (mezzo secolo di vita a Milano in tre) abbiamo dovuto seguirti a piedi, in fila indiana, in Paolo Sarpi, perché dovevi  essere tu, col tuo cellulare a portarci al ristorante cinese che tanto ti piaceva. Ho tatuato nell’anima il cocciuto entusiasmo di quella sera, l’orgoglio di chi comincia a penetrare le strette maglie della City (e a ingrassare come noialtri).

Cosa farai da grande il traduttore, l’insegnante, il video maker, l’ambasciatore, lo street fooder? Farai tutte queste cose Taha. Inshallah!

L’odore degli incensi della moschea mi stordisce.

Beata me che posso annusarlo. 

Ho fissato il drappo verde sulla bara in cerca dello sguardo intelligente, del  sorriso sornione a mezza bocca, della gentile eleganza, dell’ingenua schiettezza.

Beata me che posso cercarlo.  Continue reading

Zia Romilda

Meriti che io mi sforzi di non raccontare di tutto quello ho (abbiamo) perso, ma di ciò che da una vita intera mi lasci, ci lasci.

Sembra trascorso un attimo da quando due braccia possenti mi sollevavano in aria per poi scarrozzarmi, seduta nel carrello della spesa, verso lo scaffale dello shampoo Shultz alla camomilla. Perché solo gli zii possono cavalcare le fantasie di una nipotina castana e viziata che sogna di somigliare, con la camomilla Shultz, a Serena, la sua biondissima amichetta delle elementari.

Qualche secondo dopo noi bambini veniamo chiusi tutti in una stanza a fare la lotta con i cuscini, mentre zio Peppe, tuo marito, poneva fine ai nostri giri all’ipermercato per raggiungere in cielo sua madre, la nonna veneziana, una donna che non ho mai conosciuto se non nel racconto mitologico tramandato per generazioni.
Ci sono voluti molti anni da quel pomeriggio per decodificare e stanare le vostre raffinate tecniche di protezione dal dolore, per associare la perdita a uno dei giorni più avventurosi della nostra vita di cugini. Da piccoli perché eravamo piccoli, da grandi perché stavamo fuori. Preservarci è sempre stata una regola non scritta tua e dei tuoi fratelli, capaci di coalizzarvi e moltiplicarvi con la stessa apparente semplicità del teatro delle ombre cinesi.

Eri diventata vedova, una parola che apparteneva al mio lessico da sempre perché entrambe le mie nonne erano vedove, ma non riuscivo a percepirne il peso, non solo perché fossi una bambina, ma per questo tuo, vostro modo di cucirvele addosso le parole, lasciarvi attraversare da esse, scomporle con dignità e gentilezza, talvolta ironia, fino a renderle prive di forza, incapaci di descrivervi, di etichettarvi.

Cos’era cambiato, in fondo? Il salone della casa di San Giuseppe era sempre dannatamente enorme, Vera continuava a farmi giocare con i trucchi nella cabina estetica casalinga e in qualche domenica assolata ti accompagnavo a lavoro al bar di Carmela, ricevendo contemporaneamente, in cambio della mia disciplina, lo sciù e il calzone fritto. Quante emozioni si consumano nel retro di un laboratorio!
Sì, eri più magra, ma continuavi a preferire il rossetto bordeaux, indossare colori brillanti e io a ripetere a mia madre, un po’ per provocarla, che eri la più bella delle tre sorelle.

Mia zia sembra una spagnola!

Dunque, cosa era cambiato in fondo?

Oggi viene mio cugino Marcello a montarmi la villa di Barbie…

Niente non cambia niente, tutto, cambiava tutto.

Le case. Prima con la nonna, cucivi i cuscini in pendant con le tende, quanti jeans accorciati e rattoppati, le tende arancioni per la mansarda di Milano, la spola a Portici con la panda verde, poi la tua deliziosa casetta a tre piani di Vico Zappella, che un water bungalow alle Maldive non mi avrebbe regalato altrettante emozioni.

Quanto mi mancherà varcare inaspettatamente la soglia di quel portoncino, salire quella scala, la stanzetta sulla destra prima di Rino e poi tua, il caffè con la cialda Borbone rigorosamente oro, aprire il frigorifero, prendermi il bicchiere, farti i complimenti per l’ ordine impeccabile e sedermi di fronte a te  per quell’unica domanda: Alduccia, che dici a zia?

Mi è sembrato di vivere in tutte le tue case, anche nel monolocale di Zobél in cui avete vissuto da bambini quando io non ero neppure nata. Ho di certo vissuto direttamente e indirettamente tutte le tue vite e tu le mie, i tuoi grandi dolori, i miei piccoli sfoghi, i rospi ingoiati, i traguardi annunciati, le parole non dette che so che, dove sei adesso, conosci già.

Te ne vai ma quando non scivoli via dal cuore non te ne vai mai, mai!

Ci lasci il tuo pezzo più bello: la preghiera sincera, la perseveranza nella prova, la semplicità in cui germoglia ogni verità, la gentilezza d’animo, la malinconia celata dietro un sorriso, la fede salda in ogni tempesta, l’ospitalità ma soprattutto l’ accettazione piena del nostro essere. Grazie per aver accolto prima le nostre ombre che le nostre luci.

Ho perso per strada il tuo pezzo più brutto, la trasformazione, il finale già scritto.

Me ne dolgo, ma so che hai voluto come sempre proteggermi lasciandomi sperare fino all’ultimo, nell’orizzonte di una nuova estate in cui poter varcare, ancora una volta, la tua soglia inaspettatamente.

15 agosto 2019

Nanniné

IMG-20160103-WA0015Avresti voluto vedermi con l’abito bianco Nanninè non senza la raccomandazione che marito e moglie devono stare accuciunegliati, vicini vicini, come cuccioli. Come i conigli.

Ma quando anni fa mi lasciai col fidanzato abbandonandomi sul divano alzasti il telefono e dicesti: uè devi uscire a nonna, che devi fare a casa, piangerti a Carnevale?

Il significato dell’espressione chiagnere Carnevale ancora non l’ho capito, ma devo ammettere che, evocandomi l’immagine di maschere mostruose e sofferenti, fosti molto incisiva.

Mi sono chiesta che ne sapevi tu della vita di coppia, rimasta vedova con quattro criature piccerelle a trentatré anni, l’ ann e Crist, la mia età di adesso.

Non uscirò alle 4 del mattino a fare le pulizie delle Ferrovie dello Stato portandomi a casa carta igienica ruvida e spessa. Non dovrò stare in guardia da uomini insidiosi lungo vagoni bui e fetidi e andare a dormire alle nove di sera morta di stanchezza. E questo anche grazie a te.

E come tua figlia Romilda anni dopo, ti votasti a quella legge monogamica e monoteista che avevo già sperimentato con l’altra nonna: unico Dio, unico uomo.

Come se stesse scritto nelle stelle che queste donne del Sud della mia famiglia dovessero rimanere sole un poco a litigare, un poco a farsi compagnia profondendo intorno a loro un amore quasi teatrale, una voragine affettiva che, come l’onda del mare, risucchia e butta fuori.

La tua esperienza in fatto di coppie era certo frutto del consumo vorace delle telenovelas di Grecia Colmenares. Manuela, in cui la stessa protagonista aveva i capelli sia biondi che neri,  era una nostra passione comune. Che soddisfazione per te quando dopo un’estate trascorsa fuori al balcone a studiare copioni passai il test di Un posto al Sole!

Di nonno Marcello parlavi raramente, troppo presa dall’affollato presente: i figli, i nipoti, le amiche della chiesa, le letture e le canzoni sacre che canticchiavi mentre stendevi e ritiravi il bucato bianchissimo, facevi le verdure arrostite, ti succhiavi le teste del pesce e riordinavi cassetti e mobili, la tua ossessione.

Tu sei la mia vita, altro io non ho. Tu sei la mia strada la mia veritaaaaaaaa….

A un certo punto hai smesso di fare i succhi di frutta, le melanzane sott’olio e le alici marinate. A un certo punto gli anni sono scivolati tutti nella bottiglia di vetro della Zuegg e non mi accompagnavi più a messa tenendomi per mano, consentendomi persino di rimproverare per la loro volgarità le vecchie che entravano nella chiesa di Pugliano con le calze rosse. E quella mia nipote va a scuola dalle suore, le studia queste cose.  Alle tue figlie non consentivi nulla, dovevano solo scattare. Titina, Romilda e Anna: tre api operaie intorno all’unica Ape Regina che eri sempre e solo tu. Avevi una mente geniale, vigile, scientifica, lo sguardo vispo, un’innata attitudine al calcolo e una personalità fragile che la vita aveva reso dirompente. Eppure l’italiano scolastico di una bambina come me, quell’italiano che dominavi poco ed esibivi nelle occasioni pubbliche modificando anche il tono della voce, ti ammaliava quasi fino a soggiogarti.

Io non ero per te solo la figlia della figlia Anna, che porta lo stesso nome della mamma e della nonna, ero anche un incantatore di serpenti. Ero il riscatto, ero l’eccezione, ero il futuro. Non come i gingilli che custodivi gelosamente nelle vetrinette. Io ero la bomboniera che poteva andare in giro per il mondo, a cui tutto era concesso. Lasci’ a sta, lasciala stare, Annù.

Le tue figlie no, dovevano stare là a raccontarti pedissequamente le nostre vite e a contare cento volte Babbi Natale e Uova della Kinder che facevi trovare a nipoti, pronipoti e fidanzati in tutte le feste comandate.  E con i racconti e con quella scappata che tutti facevamo di ritorno dalla Lombardia, dall’Emilia, dalla Toscana eri una donna a modo tuo felice e appagata.

Mi mancherai Nanninè. Mi mancherai sia dolce che sfrenata. Sia elegante che con la camicia di notte di lino. Mi mancherà la tua personalità ribelle. Tua la risata, lo sfottò, la malaparola, il calore della grande casa nel rione più elegante che potevi sognare, le manie da protagonista, la fissazione della magrezza e dell’abbronzatura. Il ricordo di un poco di mare con te sullo scoglietto del Pezzolo. Gli occhi pieni di vita sciagurata ma sempre brillanti.

Hai sempre rifiutato gli orpelli, gli ausili e le protesi. Mai la dentiera, mai l’apparecchio acustico. No ai cerotti, alle coperte, gli aghi, no all’ossigeno. Pure in fin di vita. Ti abbiamo dovuto mantenere le mani.

Grazie per avermi comunicato il sentimento di essere importanti ed indispensabili. E soprattutto, grazie di aver colto la mia difficoltà a farmi spazio nei buffet, familiari e non. Che motivo avevo di allungare la mano, se dietro le spalle c’eri sempre tu che mi riempivi il piatto alluccando mangia e Min’ncuorp ?

L’attestato

Quando la disoccupazione è un plus

Denise ha fatto il corso col pancione e suo figlio Dieghino – per non confonderlo con Diego, il nostro imbianchino 2.0 e cavallo pazzo della rete – è veramente un nativo digitale.

Stefania è un ex store manager. L’unica tecnica di sales che le consiglio di conservare nella sua second life professionale è quel sorriso che non ha bisogno né di luminosità nè di contrasto.

Vagabondare tra pizzerie, mense e caffè in compagnia dei Rumors (Sabrina, Elisa, Mauro, Pit e Monguzzi) è stato il migliore piano editoriale sul food che potessi mai realizzare. E quando mi hanno hackerato l’account Gmail e Lorenzo mi ha preso la mano in segno di profondo cordoglio ho trovato  questo gesto davvero responsive.

Giulia e Milva, nell’Edgerank, la classifica globale, sono quelle che mi hanno ricordato di più la me che ero. Quella caparbietà sognante, il ditino furioso sulla tastiera, la risposta che non basta mai. Le avrei assunte subito.

Ma io, che imprenditrice non sono, al massimo ho snocciolato a Francesca e Arianna consigli su come diventare una stageur di successo o fare tre colloqui nello stesso giorno senza farsi prendere dal panico.

Tra un #ashtag e l’altro c’è pure chi ha parlato di radici e  poeti. Spero che Giorgio, il nostro Consigliere Provinciale, tenga sempre lo sguardo alto (agli ideali) e mai basso (al seggio). Stefano, il capoclasse, non ha bisogno di annunci sponsorizzati. Faccia pulita, nordicità user friendly, lui è la conversione.

Non tutto è ancora finito. Ho in serbo una guerriglia con Pozzoli e Christian degna del migliore storytelling. Combatteremo contro chi, dopo averci fatto scannare come agnelli a Pasqua, ha ritirato il reward, la ricompensa.

E ci ubriacheremo tutti con un bel vino di Cigognola campagna si, campagna no, se famo du spaghi. E pure un selfie.

Questo per me è veramente social. Averli conosciuti ed aver imparato a condividere uno stato, una contingenza -la disoccupazione – e averla trasformata in un valore. Più che di marketing digitale, questo è un attestato sulla resilienza. Si chiama così la capacità di ricostruirsi nelle avversità?

Cerca con Google.

Zio Vittorio

Non mi volevi al tuo funerale. Lo so. Perché a te ti sono sempre piaciute le visite.  Le sorprese mai. Soprattutto durante la controra. Ti piaceva la visita classica. La poltrona, i mobili antichi, il porta bon bon con le caramelle Rossana. D’inverno, la stufa a gas e il maglioncino di cachemire verde. La doccia sul terrazzo d’estate. La chiamata sul telefono fisso, l’appuntamento, le lettere che finivano sempre con “sua pregiata mano” e altre incomprensibili sigle del bon ton.

Direttore, Professore, Cavaliere, Amico di Ministri e Giornalisti, estimatore del titolo, persecutore dell’alleanza di rango.

Orfano di padre, emigrante in Germania,  la sindrome del fratello più grande, le zuppierone di verdura,  pane e glicemia, insulina per gli amici. Per i nipoti un’istituzione. Da temere, quasi.

In qualche angolo della memoria affiorano i baffi e la pipa. Poi la stecca di Marlboro che ho annaffiato sotto al  lavandino il giorno che decisi che non dovevi più fumare.

D’altronde sono stata sempre una bambina viziata e sfriggiosa, non è vero?

Se te lo dicessi mò, sfriggiosa, scoppieresti in una di quelle tue risate grasse e farfugliose. E racconteresti di quando ti aiutai a dipingere il lampadario dello studio. Dopo un mese stavi ancora raccogliendo le gocce di pittura.

I miei fidanzati non ti sono mai piaciuti. Scavurati, dicevi. O’ zio, qua abbiamo bisogno di gente produttiva.

Abbiamo litigato. Ti piacevano i miei articoli. E i tuoi tempi.

Poi un giorno d’estate, la peggiore estate, squilla il telefono a prima mattina: senti a zio, se non trovi lavoro te li dò io tremila euro e facciamo un grande libro con le ricette della cucina mediterranea. Quattro mani tu e tuo cugino: una giornalista e uno chef.

Pensavi sempre grande. Enorme.

Instancabilmente. Con regole golose e voraci, strabordanti.

Volevi realizzare. Volevi il trionfo del cognome.

Allora,  sulla barchetta, proprio quel giorno, di fronte a tanto vento e tanto mare, mi sono chiesta a che pensavi. Cosa pensava uno come te da dentro al letto tutta la giornata.

Poi, tra la rada e la randa, è arrivata un’onda e la salsedine si è sfrangiata in  tante piccole gocce che non si riusciva più a guardare. Nè a pensare.

Fame d’amore

Serena l’ho conosciuta sulla Sita per Amalfi. Uno di qui bus affollatissimi, tutte curve e il conducente che canta O’ Sole Mio per i turisti americani. Roba da cartolina.

Serena sale con una bella vecchia abbronzata che non si è mai mossa dalla sua loggia, la terrazza che affaccia a mare e non è mai stata neanche a Sorrento perché lei, racconta, quando era giovane, con tutte le mamme pigliavano gli appuntamenti sulla spiaggia di Praiano e si facevano il bagno a mezzanotte.

Sapete, io senza mare pare che mi manca l’aria.

Ma a Serena non gliene frega di questi discorsi sul lifestyle. Il suo mondo è tutto nello zainetto e nel cellulare. Digita nervosamente e continuamente qualcosa sui tasti. Ma quando arriviamo a Maiori? E scrive.

Ad Amalfi me la ritrovo davanti, aspetta pure lei la coincidenza. Non capisco quanti anni ha e quanto pesa. Vent’anni? Cento chili? Non so.

E sbuffo.

Sto scrivendo al mio ragazzo se ci viene a prendere ad Amalfi, così ti dà pure a te un passaggio.

Ragazzo?Ci? La sua spontaneità mi paralizza.

Vuoi una caramella? Io sono capace di mangiarmi tutto il pacco in mezz’ora. E butta giù una Fruit Joy.

Serena mi accompagna in bagno e poi mi aspetta sotto le scale del Duomo. Abbiamo firmato il patto di sangue delle donne alle prese coi viaggi della speranza. Ormai siamo una sola cosa.

Hai fatto subito. Uah. Ti piace? Io mi giro verso il Duomo e lei, invece, mi mostra sul cellulare la foto di un pendaglio.

E’ madreperla, l’ho regalato a mia suocera per il compleanno. Sono quattro mesi che sto in casa. Lui da me non viene. Ho avuto troppo una brutta delusione da un altro che mi ha riempito di corna e ha parlato male della mia famiglia.

Ci vuole un pò di tempo per dimenticare queste cose – faccio io, empatica.

Quando mai. Dopo due giorni già stavo con il mio ragazzo di mò perché ci sentivamo anche prima e lui sa tutto di quanto il mio ex mi ha fatto soffrire.

Ancora un messaggino.

Il mio ragazzo mi vuole cucinare pasta e cipolla ma io i legumi non li mangio a meno che non ci metti un quintale di parmigiano.

Ma le cipolle non sono legumi! Obietto.

Vabbè, non mi piacciono lo stesso. Per il nostro anniversario di dieci mesi mi ha regalato tre rose rosse.  Vedi, basta trovare la persona giusta.

Già. Ma oggi andate a mare?- chiedo.

No, stiamo a casa sua, in montagna. Stamattina alle 7 mi ha detto che teneva la macchina e io alle 7.30 avevo già fatto i piatti a mia mamma ed ero pronta. Alle 8 già stavo sul pullman. A volte lo piglio anche alle sei e mezza.

Allora sei proprio innamorata- faccio io.

Serena mi guarda dietro le sue lentiggini con un mezzo sorriso e gli occhi azzurri grandi grandi.

Prende una Fruit Joy e mi passa il pacchetto.

Non ti innamorare di uno di Amalfi – si raccomanda. Dopo come fa a venire fino a dove abiti tu. Io e il mio ragazzo ci vediamo solo due volte a settimana.

E tu hai sempre fame, fame d’amore, vorrei aggiungere.

Ma sono arrivata, Serena mi ha già chiamato la fermata e ripreso a messaggiare affannosamente.

Foto di Nicola Giuliano

Il coinquilino

Storia di una convivenza extra ordinaria

Di coinquilini nella mia vita ne ho avuti 9. Sei tutti in una botta, quando ero una ragazza internazionale che viveva in uno studentato di Helsinki. Poi mi sono fatta due mesi a scrocco da una chicchissima aristocratica napoletana e poi tre mesi a pagamento con due studentesse che quando tornavano da ballare, io mi alzavo per andare a lavoro da un divano letto che si apriva in mezzo, prima di approdare, come Cast Away, qui.

Poi, è arrivato lui, il coinquilino.

Bello, occhio tagliato, mediterraneo. Quello che con una parola odiosa si definirebbe: solare. Una lampada ogni tanto, la bici da città, il gonfiatore, il pallone da basket. Tutte suppellettili accumulate in tre giorni, il tempo che un monolocale di 33 m2 si trasformi in uno stanzone da 15, full of Reyban multicolor, cuffie giganti, aggeggi tecnologici e ovviamente uno stendino open air di quelli che usano negli show room.

Non è giusto! Dovrebbe darti  una scifra simbolicà!– sbotta la mia collega francese in pausa pranzo, davanti a quei piatti finto orientali che a Milano abbuffano di dado Star.

Già. Ho trascurato un piccolo dettaglio: il coinquilino è a scrocco!

Io bonariamente lo chiamo avvoltoio, così, ogni tanto, per non far vedere che sono totalmente alla sua mercè. Lui allora, preso da uno sbiadito senso di colpa, porta su una cassa d’acqua e mi prepara il caccaviello per la pausa pranzo, quando decido che la francese e le mamme in generale mi mettono ansia e mi ritiro nel mio ramadan solitario tra i barboni di Parco Sempione.

Il coinquilino si accaparra il mio letto che da matrimoniale diventa singolo, ascolta la musica a tutte le ore, fa due docce al giorno con getto d’acqua caldissima e io pago, usa il pc di notte, o meglio, vorrebbe se un mio diktat non avesse imposto lo spegnimento di tutte le luci e la sospensione di tutti i rumori a mezzanotte.

Il coinquilino però è uno di quelli a cui non puoi dire di no. Ride se ti incazzi, ti abbraccia se urli e ti riempie di pizzicotti mentre cucini. E’ uno di quelli con cui, torto o ragione, passerai sempre per l’isterica della situazione e lui per il light, fresco, giovane, io guardo la vita con ottimismo sei tu ad essere pesante. Che un po’ è pure vero.

Ieri con il coinquilino ci siamo scolati una bottiglia di vino guardandoci negli occhi e parlando dei massimi sistemi ed io ero come al solito rapita della sua filosofia di vita, per così dire, essenziale. Gli ho dato le ultime due valige perché ora viene da me solo un weekend ogni tanto e sentendo il rumore metallico dell’ascensore che si allontanava ho capito che può darsi che io non sappia cosa dico, scegliendo te – un fratello– per amico.

La Carla

Quando una rosa vale più del Pinguino

La Carla ha settant’anni, è la mia padrona di casa e ogni tanto mi riceve in kimono.

E’ stata la prima traduttrice italiana di non so quale scrittrice inglese, cosa di cui va molto fiera e che mi ripete ogni volta che vado a pagare l’affitto.

Ma le interazioni tra me e La Carla, per quanto rade, non si esauriscono in un assegno mensile.

La Carla mi scrive. E abita nella scala affianco.

Mi scrive lettere e sms per dirmi che non è in casa. “Siamo+ al+ mare+saluti+carla.” La Carla ha un problema la funzione spazio del cellulare, nonostante in una session d’affitto le abbia mostrato più e più volte che non deve premere + ma 0. Nulla da fare. E’ troppo presa dalle sue piante, dalla collezione di cavallucci a dondolo, dal decoupage, dalle canzoni di John Lennon che lei ciclicamente stampa e attacca sulla porta d’ingresso, lato esterno, che tutti possano vedere.

E soprattutto, è troppo presa a raccontarmi dell’ansia e agliagliai, quanto fa male la ferita in petto, non guarisce, i medici sono stati bravi, ma con questo lungo inverno a Milano, poi, figuriamoci.

La Carla mi regala. Regali sul pianerottolo, che trovo così, all’improvviso, come l’arcobaleno dopo la pioggia, come una strana sostanza di cui l’emigrante ha ricordo e che dovrebbe chiamarsi qualcosa come calore umano.

Regali alla Carla, per intenderci. Candele e fiammiferi se manca la luce, servizi di piatti spaiati, presine fiorate e un memorabile maglione xxl con cuori scozzesi, perle e papere che ha dato il via ad un lungo e tacito scambio reciproco di regali riciclati.

La Carla lascia davanti alla mia porta le rose d’inverno e le mimose a primavera, anzi il 15 marzo e sul biglietto rilancia “ Cara A. un po’ in ritardo dopo l’8 marzo!! Auguri!! Ciao Carla”,

La Carla mi accompagna sempre all’ascensore e sembra che mi vuole bene, ma se le chiedo di comprarmi il condizionatore perché sul tetto d’estate ci sono 50 gradi, la Carla nicchia.

“Non trovi che Immagine sia la canzone più bella del mondo? Io sono atea, ma a Lennon ci credo”.

La stanza di Ross

Io nella stanza di Ross ci vado sempre una, max due volte l’anno, ormai da quattro anni.

Nella stanza di Ross si va per dormire, quando si decide che è festa e ci vuole un posto per smaltire l’ hangover, ma si finisce sempre che Ross dorme e io guardo la stanza di Ross, che è fatta proprio per sentirsi giovani e riscoprire il Peter Pan fanciullino che è in noi finché non s’ammala di depressione.

Mentre Ross dorme, io vedo nella stanza di Ross i migliori b-movie della mia adolescenza.

Ross in quel periodo non esisteva, ma la stanza di Ross e il suo soffitto, in particolare la parete sinistra con l’invito al BBQ-barbecue-party attaccato allo specchio,  a cui io e Ross siamo andate veramente, facendoci i km a piedi in una foresta finlandese per arrostire due sausages sul fuoco e sentirci internazionali, me la ricordano tutta, (l’adolescenza).

Nella stanza di Ross le maglie sono rigorosamente viola e si legge Jack Frusciante è uscito dal gruppo mentre la prof. spiega e si fa la scritta sulla Smemoranda del nome del ragazzo maledetto che ti fa ascoltare i Pink Floyd invece di E. Ramazzotti.

Nella stanza di Ross nell’ora di educazione fisica ti metti i vestiti normali perché la tuta è da sfigati, ma sei la più secchia del compito d’italiano.

Nella stanza di Ross ti infili le Dr Marteens e vai ai concerti con la birra in mano e balli ondeggiando in quel modo perché si capisca che tu non sei una borghese (poi te ne accorgerai col tempo).

Nella stanza di Ross comunque c’è tutto il compiacimento del viaggio sgangherato che è l’unica cosa non romanzata della stanza di Ross.

Poi per il resto nella stanza di Ross si dorme una chiavica, perché Ross accanto a me dorme e io guardo la stanza di Ross  immaginandomi cosa la stanza di Ross si inventerà la prossima volta per ricordarmi la festa appena trascorsa.

Per il resto la stanza di Ross con le sue maniacalità del ricordo sa regalarti grandi viaggi all’indietro, che poi sono sempre viaggi in avanti.