Pelé
Sono nata nel 1982. I tifosi dicono che non è un anno qualsiasi. E’ l’anno. L’anno in cui l’Italia vinse la coppa del mondo. Sono nata nel 1982, in provincia di Napoli. Per me è normale che, mentre cammini ai Tribunali, ti ritrovi davanti un’icona votiva. Dentro la teca, però, non c’è l’ immaginetta della Madonna, ma un capello del pibe de oro, Sua Santità Diego Armando Maradona.
Maradona e’ meglio ‘e Pele’ ci hanno fatto ‘o mazz’ tant pe’ll ave’…
Lo stadio? Questo sconosciuto. Il fuorigioco? Un cruciverba lasciato a metà.
Il ritornello Maradona e’ meglio ‘e Pele’, simbolo della curva B degli anni ’90 e colonna sonora della domenica di mio zio Geremia, divisa tra il ragù in canottiera e la radiolina che trasmette la partita, è tutto quello che so di calcio. E soprattutto, è tutto quello che la mia memoria riesce a raccattare su Edson Arantes Do Nascimiento: al secolo, Pelé. E’ con questo bagaglio sgarrupato che mi accosto al film dei fratelli Zimbalist, al cinema dal 26 maggio.
E’ vero, di calcio non so niente. Ma la fatica la capisco. La corsa contro il tempo, chi si ferma è perduto, fare poco, sempre e bene che a pilo a pilo se fa o’ penniello. Essere figli dei buoni consigli, essere dei buoni figli ed essere, nello stesso tempo, figli di nessuno. Avere fame e sete. Solo la fame di autoaffermazione, oltre la coltre dei sacrifici paterni, ti fa correre sulla breccia senza scarpe, ti fa usare un mango al posto di un pallone, ti fa tirare calci contro un palo per tutta la notte, per quella rete che verrà, se verrà, dovrà venire.
E’ nell’assenza di limiti fisici e mentali che Pelé diventa Pelé. Non si tratta solo di essere i più dotati del villaggio. E’ prendere coscienza, resistere nel corridoio della diversità, sapersi fermare, mettere a fuoco l’azione che verrà. Prevedere, vedere oltre, immaginare, sognare.
Nel flamenco, si giudica bravo un ballerino si tiene duende. Il duende è quello spirito, quell’anima, quel sentire tipicamente flamenco, quella strana alchimia tra dolore e passione, quel guizzo che tutti riconoscono, immediatamente, nell’intenzione creativa di Joaquín Cortés, per esempio.
Nel calcio brasiliano, questo quid, questa frenesia tipica si chiama ginga. La ginga è il passo base della capoeira, ma ci suona più familiare se pensiamo ai tentativi di palleggio fatti in tutti i cortili del mondo tentando di imitare quel calcio grezzo e acrobatico, colpo di testa, palleggio, pressing veloce, dribbling aggressivo, tiro spettacolare dei nostri padri, zii, cugini, compagni di classe, amici.
La ginga non è solo uno stile di gioco. E’ un modo di essere. E’ bandiera, fischietto, musica, danza, favela, corsa, risata, carioca. E’ la radice.
E’ l’unica arma di cui Pelè, a soli 17 anni, può disporre per uscire e fare uscire il Brasile dal senso di inferiorità in cui versa dal 16 luglio 1950, anno del Maracanazo, l’ epocale sconfitta contro l’Uruguay.
Ma dove vai, se la squadra non ce l’hai? Non si diventa campioni da soli. Pure Pelè ha bisogno di un altro in carne ed ossa che gli passi metaforicamente la palla, riconoscendolo, legittimandolo, affidandogli la responsabilità, il rischio del tiro, l’ebbrezza della vittoria, la celebrità.
Senza Josè, non c’è Pelè. E’ solo quando il suo rivale d’infanzia, il bianco su cui l’allenatore aveva puntato tutto nel campionato contro la Svezia, il giocatore che aveva sempre sognato di essere europeo, lo esorta ad usare la ginga e a scendere in campo da brasiliano che Pelé può finalmente giocare come Pelé.
E’ il 1958 e il Brasile è il primo paese sudamericano a vincere su suolo europeo. Tutto il resto, per chi ha la fortuna di non avere un bagaglio calcistico sgarrupato come il mio, è storia. Come il 1982, non un anno qualsiasi.