Category: El paìs

A’ finestra

Sugnu sempri alla finestra e viru genti ca furria pà strada Genti bedda, laria, allegra, mutriusa e siddiata Genti arripudduta cu li gigghia isati e a vucca stritta “Turi ho vogghia di quaccosa, un passabocca, un lemonsoda” Iddu ci arrispunni: “Giusi, quannu ti chiamavi Giuseppina, eri licca pà broscia cà granita” “Turi tu n’ha fattu strada e ora che sei grosso imprenditori t’ha ‘nsignari a classi ‘ntò parrari” Sugnu sempre alla finestra e viru genti spacinnata, sduvacata ‘nte panchini di la piazza, stuta e adduma a sigaretta, gente ca s’ancontra e dici “ciao” cu na taliata, genti ca s’allasca, genti ca s’abbrazza e poi si vasa, genti ca sa fa stringennu a cinghia, si strapazza e non si pinna, annunca st’autru ‘nvernu non si canta missa, genti ca sa fa ‘lliccannu a sadda, ma ci fa truvari a tavula cunsata a cu cumanna Chi ci aviti di taliari, ‘un aviti autru a cui pinsari almeno un pocu di chiffari “Itavinni a travagghiari” vannia ‘n vecchiu indispettitu, “avemu u picciu arreri o vitru”. Jù ci dicu “m’ha scusari, chista è la me casa e staju unni mi pare. La domenica mattina dagli altoparlanti della chiesa a vuci ‘i Patri Coppola n’antrona i casi, trasi dintra l’ossa “piccaturi rinunciati a ddi piccati di la carni quannu u riavulu s’affaccia rafforzatevi a mutanna”. Quannu attagghiu di la chiesa si posteggia un machinone scinni Saro Branchia detto Re Leone Patri Coppola balbetta e ammogghia l’omelia cu tri paroli picchì sua Maestà s’ha fari a comunioni Chi ci aviti di taliari, ‘un aviti autru a cui pinsari almeno un pocu di chiffari “Itavinni un pocu a mari”, vannia un vecchiu tintu “accussì janca mi pariti ‘n spiddu” Jù ci dicu “m’ha scusari, ma picchì hati a stari ccà sutta a me casa pà ‘nsultari”. Sugnu sempri alla finestra e viru a ranni civiltà ca ha statu, unni Turchi, Ebrei e Cristiani si stringeunu la manu, tannu si pinsava ca “La diversità è ricchezza” tempi di biddizza e di puisia, d’amuri e di saggezza Zoccu ha statu aieri, oggi forsi ca putissi riturnari si truvamu semi boni di chiantari ‘Nta sta terra ‘i focu e mari oggi sentu ca mi parra u cori e dici ca li cosi stannu pì canciari Chi ci aviti di taliari ‘un aviti autru a cui pinsari, almeno un poco di chiffari Itavinni a ballari, ittati quattru sauti e nisciti giustu pì sbariari Jù ci dicu “Cù piaciri, c’è qualchi danza streusa ca vuliti cunsigghiari!?”

Il fatto di J.

Se avete due minuti da perdere sulle storie di ordinaria emigrazione occupazionale,  qui c’è un accenno anche alla mia.

Se  avete due ora da perdere e la cosa vi interessi un chicco, invece, commentate (sempre che vi riesca). Io sono stata moderata dal moderatore perchè mi sono permessa di fare “uno shampoo” a un tizio che insinua che il precariato è una manfrina da ricchi.

 

A' Crisi

CAKDEP5KCAGB8YUOCA7DGIRRCAOB2DJ7CAB5H28MCAHZ55XICADASNH5CAX4MU1RCA61MYVVCAO3HN1RCAS41VSUCAESOPWICASM8TW9CAG3GMMHCAVB0VVHCAZCK8TRCAGA9F6ECACE9HDMCAWWXCLRQuella d’astinenza l’ho imparata a dodici anni. Quando mio padre lavorava in comunità e vedevo i tossici contorcersi nel letto, tra le lenzuola sudate e dolori nelle viscere. Allora avevo le unghie spesso sporche. Uno di loro mi disse che non si confaceva a una signorina perbene andare in giro con le unghie nere. (Mi torna in mente ogni volta che non faccio la manicure).

Ma che c’hanno quelli là? Stanno a rota. Mi dissero.

Come se quest’unica risposta bastasse a spiegarla. Ma se ci ripenso col senno di poi, io capii. Capì che questa parola circolare e inglobante aveva a che fare con i buchi neri dell’anima e non delle braccia (si, da noi al Sud si portava ancora l’eroina per quelli che volevano essere tossici senza denti e non tutti fatti a cocaina con la giacca e la cravatta, o peggio, con le All star a sessant’anni come il mio ex capo).

Quella di governo me la sono fatta tutta addosso, insieme a tanti giovani dalle belle speranze, laureati, menzionati, blasonati, masterizzati ed emigrati. Non nel senso che mi ha fatto paura, ma in quello più lato di “passarsi una cosa addosso” come “non ti asciugare il sudore addosso che cadi malato”.

Non ve l’ha mai detto vostra nonna?

 La mia sempre, facendomi sciacquare i polsi sotto l’acqua fredda ogni volta che giocavo a nascondino con le amichette del palazzo e tornavo tutta accaldata. Quella di governo è subdola, cresce silenziosa come i bozzoli che si vedono sui tronchi degli alberi. Ti rende pesante, come quando mangi troppo formaggio o troppi funghi o troppe uova a e quando vai in bagno devono chiamare i vigili a spegnere lieviti e fuochi fatui. Non mina ai sogni, ma li rende complessi, tormentati, sfuocati, confusi, sospesi tra la voglia di indipendenza economica e l’impulso di non farselo infilare nel culo ogni volta che strisci il badge. Il mio coinquilino dall’alto dei suoi venticinque anni e l’impossibilità di fare uno stage (perché è trascorso più di un anno dalla laurea, attenzione!) mi ha detto sardonico:

l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro.

Dal basso della mia pesantezza, che ti tira atterra e ti impedisce di vedere le cose “alte”, non avevo riflettuto sull’articolo uno delle nostra costituzione. E allora sapete che vi dico? La nostra italietta provinciale e modiaiola se la merita proprio. E io, lasciandomi alle spalle un passato di doverismi e stacanovismi, non vedo l’ora di uscire dal mio ufficio col culo pieno di emorroidi e starmene lì a contemplarla, col mio bel sussidio di disoccupazione e un ghigno pirandelliano, A’ Crisi, inghiottendo un pinnolo e’ manc’ pa  cap* sciolto nell’acqua minerale.

* pillola del menefreghismo, intraducibile.

 

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Daverio e l’Italia Unita: non c’è nulla da festeggiare in questo paese decadente

Philippe DaverioFonte: Dn News Milano

D: C’è  poco da festeggiare?

R: Tracciando le linee di questi ultimi 150 anni non posso che vedere che una situazione drammatica, rappresentata nell’arte con il passaggio dal “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo al dito medio di Cattelan. Il primo era un capolavoro assoluto, acquistato dal comune di Milano come il dito. Ma il passaggio tra i due è come il passaggio da Cavour a Berlusconi, una decadenza lenta e inarrestabile. Non parlo di merito artistico, è un dato oggettivo.

D: Come vede le celebrazioni?

R: Al momento vedo solo un’impostazione patriottica, tanti tricolori, tra poco si chiederà il ritorno dei Savoia!

D: Prima era meglio?

Basti pensare a come sono stati festeggiati i precedenti anniversari. Nel 1911 sono stati costruiti l’ Altare della Patria e il Ponte Vittoria. Prima si facevano i ponti sui fiumi, oggi al massimo si fanno i ponti sui week end. Quest’anniversario è un evento storico e non si può prescindere dall’ analisi storica. Farla vuol dire rendersi conto di come sia precipitato in basso questo paese.

(Da Merincontraria e dai tetti piovosi di Milano è tutto. A presto con post meno apocalittici anche se vorrei dire al mio caro Daverio che con Emanuele Filiberto a Sanremo i Savoia sono tornati. Da mò.)

 

Vicoe

Weekend di ordinaria follia

E sentire il profumo del pino sul selciato bagnato, il freddo umido senza termosifone, il mare d’inverno, un vero angolo cottura.
E stare accoccolati nel letto e risate a squarciagola, caffè su caffè dai capelli bianchi, chiacchiere nel treno, battute superflue di donne legnose che Almodovar dovrebbe fare un casting al più presto.
E il vacuum sostenibile, Internet free, chi viene e chi va, vicini di casa, vociare dormiente.
E riflessioni do o’ scan, che non è skunk, l’aria condizionata d’inverno, le marmellate di casa, il sanguinaccio con i pinoli.
E sfrecciare in una Marbella tra gli olivi, tra mare e montagna, un palco rococò, un australiano con l’armonica, una birra x 2, bevendo dallo stesso bicchiere.
Un libro d’avanguardia e silenzio sulla musica prog.
Un senso d’oppressione e uno di libertà.
Tuffarsi nell’orizzonte.
Incursioni di vita nuova e medley d’emozioni gastriche.E il passo felpato mentre il caffè sale, il neon di prima mattina mentre i figli dormono e il treno che inesorabilmente fa ciuf ciuf con un pacco di fagioli sottovuoto, Caronte per un nuovo girone, senza il profumo di casa, ma con 365 mutande di ricambio.