Category: Viaggi

Io, tu e Pasqua

E fu così che neanche il tempo di dire ciao a natale dissi: facciamo Pasqua tre da me e tre da te. E quel che resta di otto giorni viaggi inclusi:

#campania

La prima uscita a quattro dopo dieci anni. Dieci anni per essere nello stesso “stato sentimentale impegnata” e non una gaudente e l’altra gemente e piangente in una valle di lacrime.

E’ un’emozione che cresce piano piano. Ma a Pasqua no. Che confusione l’arrivo il sabato santo nel mezzo della VISITA. Sipario già alzato su pizza e maccarun’, torta pasqualina, casatiello dolce e salato e pastiera uno e pastiera due. Squilla il telefono, bussa il citofono ed ecco la vicina con la numero tre, pronta a barattare con il ruoto della concorrente. Che vinca la migliore in questo masterchef perpetuo e Dio la mandi buona a noi cavie della tavola imbandita, vittime sacrificali di ricotta e millefiori.

La messa di Pasqua io mammet’ e tu, il vento e l’odore della salsedine che si infizzano sotto le porte a vetri e si azzeccano sui boccoli delle paesane vestute affesta.

Il tavolino in piazza con gli amici per l’aperitivo della mattina che di sera è tale e quale al bistrot qualche metro più in là. Ma Roberto stavolta mi scappa.

Quel mazzolin di fiori che vien dalla montagna. Te lo voglio regalar.

Il sole sulla terrazza in cui sono sempre più segni che risvegliano sogni ormai sopiti. Il compostaggio con i lombrichi.

#puglia

Il tempo delle belle notizie che riempiono il cuore di gioia e cambiano i colori del mondo. Il tempo dei blocchi che non danno tregua. La sciatica impazzisce e su e giù due volte al giorno al tempio del Dottor Ho, il santone degli aghi e delle torture cinesi. Dalle cellette di questo appartamento riadattato a “clinica riabilitativa cinese” senza fattura, urla sovraumane, odore d’alcol e di brodo di pollo, la tv con Bonolis e la sellerona negli anni 90, barattoli di vetro infuocato che tirano via i mali del corpo. Per la frequentazione assidua vinco un kit di radici per il raffreddore, il posto d’onore sulla sedia accanto a uomini ridotti come porcospini e imbambolati da musica zen e coperte calde. Il dettaglio glam: salviette inumidite all’olio di mandorle, introvabili.

I ricci, seppur dalla poltrona ortopedica e senza vista mare,  che si possono mangiare solo nei mesi con la erre a causa del fermo biologico, ce li facciamo portare a domicilio.

La levetta del cofano si scassa e dopo i quattro giorni trascorsi nella tenuta di campagna tra calle, olivi, cicorie, cime di rapa, fave appena colte, fucazz in tutte le salse, ci agghindiamo l’auto con tutte le valigie a vista e ce ne andiamo. Siamo l’orgoglio di tutti i terroni.

Siamo in tre. Il mugolio di Vicky ci accompagna in tutto il percorso, misto ad arrampicate sul cartone della scatola che abbiamo usato per il trasporto. La prima volta che rapisco una gatta per regalare un sorriso a un adolescente.

Il confine tra Puglia e Campania, lo vedo sotto i goccioloni dello specchietto retrovisore. La mia prima guidata da viaggio attaccata allo sterzo e con la mandibola gonfia d’impegno.

C’è ancora la consegna da fare e poi via dalla vita di mai verso la vita di sempre in un eterno risciacquo.

Vorrei tornare a essere una ragazza, quasi selvaggia, aspra e libera, che ride delle offese e non ne impazzisce. Emily Bronte, Cime Tempestose.

Ma è già tempo di compleanni ed entro da funambola nei miei trentadue anni.

Marocco

Quel che resta del.

E poi, tutta presa a fare avanti e dietro dal bagno, in preda a quelle diarree del viaggiatore, che poi sono solo diarree normali delle ragazze che si abbuffano, del Marocco non ho più scritto.

E allora raccolgo quel resta attaccato addosso, compreso l’olio di argan che puzza di noccioline e di cacca di pecorella. Ma ormai nella mia doccia ci sono solo prodotti arabi: due guanti di crine che scippano la pelle come solo una chiatta matrona araba saprebbe. Il savon noir, sapone nero, da spalmare prima e dopo il gommage e il Gasshoul, un composto d’argilla a forma di polpetta da usare al posto dello shampoo.

Mancano solo quella decina di secchi d’acqua bollente che ti buttano addosso tra i vapori fino a che tu dici stop stop madame non riesco a respirare e le urla dei bambini.

Ragazze, l’hammam, quello pubblico, dove la gente va a lavarsi è tutt’altro che un’esperienza rilassante, almeno per quelle turiste occidentali che senza sapere l’arabo vogliono fare a tutti i costi quello che fanno le donne del posto. Però c’è tutto: per 10 dirham ti puoi comprare una mutanda nuova e un rasoio bic.

I capelli, sotto il foulard, si asciugheranno da soli. Inshallah. Sempre se Dio vuole, come tutte le cose che si fanno là.

Io i viaggi non li so raccontare. E mostrare  le foto del viaggio tentando di spiegare, una violenza. Devi farmi vedere le foto del Marocco. Sorrido. E aspetto una grigia mattina di Novembre per ritrovare l’atmosfera di patii e tappeti e colori e colazioni luuunghe e caos di città e deserti sconfinati.

E allora raccolgo quel che resta, ora per davvero.

La puzza della pelle nelle concerie di Fez e il dedalo della medina in cui perdersi e farsi male. Cediamo alle false guide, ma anche quello fa parte del gioco. Il caffè più buono della vita. I francesi comprano le vecchie ville a poco prezzo che diventano splendidi rihad, prigioni dorate per coppie gay occidentali che vengono a fare del sesso esotico di lusso scandito dalla voce del muezzin  المؤذن للصلاة  incaricato di chiamare dal minareto  cinque volte al giorno i fedeli  per la preghiera. E il tripudio di voci e canti, in trecento moschee, alla stessa ora di giorno e notte, come dico sempre, me lo tatuo sul cuore. E poi da lì, non so come mi ritrovo a ballare a piedi nudi nel Sahara insieme a Majhid, nostra guida e nostro amico, marocchino che ce l’ha fatta ma senza il passaporto. Paradossi. Majhid, da gigolò per Milf svizzere ad autista per una nota compagnia di viaggi svizzera.  Il riscatto dell’ex cammelliere che vive con undici fratelli, segnato da un matrimonio combinato, divorziato e che dorme sulle dune pure se ha l’albergo pagato. Perché io nel deserto no pensare, no rumore, niente. Pace. Come per voi mare, ma di più.

Facciamo tutto. Da turisti e non. Perché il confine è sottile e non ci sarà dato capirlo mai. Mai.

Il tè sotto la tenda dei nomadi, il giro sul dromedario, vediamo le donne  sui muli e gli uomini seduti sul marciapiede a fissare la strada, i vestiti stesi sulle rocce, le persone che vanno in vacanza e anziché stendere l’asciugamano spiegano i tappeti sul fiume, le turiste con i capezzoli che si intravedono dalla maglietta bagnata per arrapare i maschi e indispettire i vecchi, i bambini poveri che corrono scalzi dietro un autobus di turisti, gli uomini in gonnella, le donne ricche e bellissime di Casablanca, le donne nere e invisibili dei villaggi. Facciamo trattative su tutto e ovviamente comprerò un tappeto che ritroverò a meno più avanti. Finalmente. Un posto senza turisti dove mangiano con le mani sul tavolo senza neanche i piatti. Finalmente. Finalmente mi libero dalle mie prigioni dorate e dai servitori dei rihad di lusso che ad ogni portata e asciugamano pulita mi sento male per loro. Mi perdo nei vicoli colorati di Essaouira e preferisco questa Grecia esotica un po’ puzzolente con tanti mercati e le donne vestite in spiaggia. Questo è l’apice del viaggio con tante confidenze  e una ceretta molto artigianale. Compriamo cose per sembrare un po’ arabe pure noi mentre loro venderebbero mamma e padre per una nostra collana. Compriamo cose per i nostri uomini, qui scopro e capisco e sento di averne uno.

E poi Marrakesh. Spaccanapoli al cubo, con le botteghe che non dormono mai e gli uomini che si fanno la barba a mezzanotte. Mi confortano i modi diversi di di vivere il mondo.  Adoro il profumo del muschio e dell’ambra, quelle centinaia migliaia di spezie del suq e le puzze del cibo in strada. Quel commercio secolare e insieme improvvisato  mi rapisce.

E chi lo sa se quando eravamo affacciate alla terrazza che dà sulla piazza di Jāmiʿ el-Fnā, uno di quegli spettacoli che gli occhi non bastano, chi lo sa se Simona B. se lo sentiva già che di lì a qualche mese, ci avrebbe invitate per un tè alla menta per dirci che sarebbe diventata madre.

Post Londra

Dei 31 anni e della resilienza

E allora quel tempo che mi è mancato, me lo scippo alle sei del mattino. Senza affanno e prima di cominciare tutto.

Buongiorno Londra. Sei scivolata via con la stessa velocità con cui si bevono certe birre a 18 anni. Ti ho ingurgitata con voracità e la sfrontatezza di un momento in cui ho sentito di essere finalmente salva. E un pò fuori tempo per essere pienamente dentro quella bellezza decadente che ti contraddistingue. Alla trasgressione di certe storie notturne che si consumano nel Tube, al bagliore posticcio di Piccadilly, alla risata alcolica di un bellissimo pub di fine 800. Mi sono chiesta perché mi sei sempre sfuggita ma so anche che non finisce qui.

Sai, Londra è quella città in cui puoi tornare dieci volte e ti pare sempre di non aver visto niente.

Non ti esaurisci. Arrivo tardi, arrivi tardi, ma al tempo della Resurrezione. Faccio un clic sul cuore sul bagno con la tazza di tè poggiata sulla vasca e l’acqua bollente. Su quei miei momenti alla Serpentine Gallery, il finestrone che dà sul parco e la solitudine con me nella contemplazione artistica. Il filmato dell’investitura della regina Elisabetta mi rapisce più dei diamanti della corona. Mi perdo nell’arzigogolio delle guglie di Westminister e so che solo con la compagna di viaggio che ho scelto posso stare liberamente in quel confine sottile tra passato e presente, caduta e scatto in avanti, errori e rivincite, trastullarmi tre ore nelle chincaglierie di Portobello e ridere a squarciagola per un insolito pic nic ad Hyde Park con casatiello, stupirmi di quello standing a sessant’anni, bere tutte quella energia che non sai a che fonte attinge.

I 31 arrivano come le silhouette dei film muti degli anni 20. Lenti e sullo sfondo. Poi accellerano di scatto e della trama non ci capisci più niente. Quest’anno fingo di più a me stessa di non volermi festeggiare. In realtà ho architettato tutto. Scelgo Milano e un letto matrimoniale su cui svegliarmi con una squadra fortissimi, come quando eravamo piccoli. Io un po’ più sola e secchiona ma sempre su un piedistallo. Loro più rilassati e complici e desiderosi di essere presi per mano. Alla fine torno a casa con cocktail, rosa e Polaroid dell’indiano ad immortalare il momento. Sonno, un trenino che si allontana verso la collina marchigiana e tanta pioggia sul vetro dell’auto. Questo mi voglio ricordare. La condensa, l’odore di bagnato, il silenzio come dopo un temporale estivo.

La resilienza è la capacita di superare i traumi guardando sempre agli aspetti positivi della vita. Qua si parla dei bambini di Baghdad, mica dei tre rotoli sulla pancia o di un neo spuntato all’ improvviso. Che poi se ci vogliamo lamentare della linea, smettiamola di fare le Signore in Terrazza con torta gelato al pistacchio affogata nel vino biologico, che c’avrà pure meno solfiti, ma ragazze mie se famo male e le calorie quelle sò. La resilienza come la vedo io ha la luce gialla di certe sere di primavera che a stare fuori fa ancora freschetto. E’ confidenza. Che te la pigli, che la dai, che viaggi sopra le righe. E’ una convivialità enorme, che si rinnova, declinata in tante piccole storie e intrecci, sensazioni sottili, che ad acchiapparli tutte esci pazzo. E’ incellofanata in una rete di pescatori. Che però se guardi bene dentro le maglie trovi sempre quel sorriso che cercavi e quello sguardo che non ti aspetti.

Vacanze in Salento

Lu focu, Lu mare e lu ientu

Il Salento è stato un patto con la luna, fatto l’ultima sera, prima di andare via. La frutta ancora volteggia e il vino rosè sfuma nel profumo di bucato, su uno stendino silenzioso di teli da mare e parei. I colori dell’estate. La mia pagliarella è sfilacciata dal vento e dalla sabbia che taglia le orecchie. I capelli sono stoppa e lo shampoo è un ricordo volontariamente lontano. Così, al sale di una doccia fugace, rubando l’ultima goccia di acqua dolce e una lacrima di senso, di quelle di quando non potresti volere di più dalla vita, che un lettino su una terrazza silenziosa di fronte al mare. Che quando non c’è foschia, si vede pura la costa albanese, dicono. Un lettino sotto stelle che quest’anno non cadono. Un lettino su cui coronare un sogno: salentina. Salentina andalusa. La Grecia Salentina e i suoi ulivi secolari. Finalmente ipnotizzata da quella radice del Sud che da sempre mi fa scoppiettare l’anima come un ramoscello sulla brace. E di come arrivo a Sant’Eufemia di Tricase, io lo voglio raccontare. Volevo vedere una pizzica prima di andare, ma nel modo in cui vivo adesso: se capita. E si stava pure litigando per questa sagra di Sant’Eufemia che stava solo su un manifesto e il navigatore non ci sapeva arrivare. Proviamo o restiamo a Santa Maria di Leuca,  scolpite come il marmo nel tacco dell’ Italia? Poi la cattedrale, il faro, l’erba della sera. Ma si, proviamo. E la magia di vecchi portoni bianchi che diventano rosa, come a Lecce. Il restauro notturno del mosaico. Le corti aperte, le vecchie che ballano con gli zoccoli, come all’antico tempo, prima che arrivassero i foulard e Non vivo più senza te di Biagio Antonacci. E poi all’improvviso un portone con i suonatori e mi ha morso la taranta. Ma per davvero. E sono stata contenta di quando il prof. Di antropologia ci ha fatto studiare il libro sul tarantismo. Dopo anni ho capito. E non riuscivo più a fermare i talloni e mi sono ricordata che mia nonna era di Taranto e forse è per questo che io sono così. Danzo la vida, a piedi scalzi, in mezzo alla piazza, stringendo un fazzoletto sudato di non so chi e questo è il mio Salento, un acme dopo una Lecce che mi ero bevuta dal film Mine Vaganti, un agriturismo ai laghi Alimini che non si può dimenticare, la Baia dei Turchi, Torre dell’Orso, San Foca, San Nicola, Santa Cesarea e tutti i Santi che ci sono tra Otranto e Gallipoli, tra l’Adriatico e lo Ionio. Ma il Salento è soprattutto il miglior patto che si può fare in una vacanza a tre. Riuscire ad andare d’accordo con la quarta, quella parte che lotta tra te…e te.

Umbria jazz

E di un weekend tra animali di zona

In mezzo alla lavanda mi sono sentita felice. Ho camminato a piedi scalzi sull’erba bagnata cercando un sassolino di tristezza, un filo di apocalissi, un profumo di struggente.E niente. Non l’ho trovato. E mi sono ricordata di quando, anni prima, la mia amica a spasso per la collina umbra mi aveva detto:

Stamattina ho fatto una di quelle passeggiate meditative in mezzo ai campi come le fai tu.

E io invece, non sono riuscita a pensare. E a parte qualche chilo in meno e la mancanza di un cavallo con cui graffiarsi le caviglie, ero quello che volevo essere. A piedi nudi, stesa sul muretto col caffè in mano e quattro chiacchiere davanti a un casolare. Come nei film di Bertolucci.
Come quelle atmosfere da festival che ti entrano dentro quando sei adolescente e non se ne vanno più. Puoi passare anni a rincorrerle a all’improvviso si dispiegano in un pomeriggio di mezza estate. In cui si decide di fidarsi ancora. Di uscire fuori zona. Nonostante tutto quello che si dice senza pensare e tutto quello che si tace per proteggerlo dalla luce del sole.
Di questo jazz umbro mi ricorderei tutto e lo dipingerei con una pennellata dolce e leggera. Ma se domani volessi riascoltare questa canzone ripenserei a Carmen la lavapiatti, il mio trolley  nascosto nel suo spogliatoio, io che l’aspetto alla fine del turno davanti all’hotel e il nostro gelato tra sconosciute. Riavvolgerei il nastro sugli abbracci del mattino, certe pose allentate sulle sedie e sui divani, la discesa al pozzo etrusco come nel libro di Murakami e una danza tribale, in auto, con le balle di fieno alle spalle.
Ricorderei che voglio vivere così, col bacio in fronte e una comune che gioca a fare le nomination del Grande Fratello.
Ricorderei la promessa di comprare una casa gialla a metà strada.
Dipingerei le stelle della chiesa di San Francesco d’Assisi e mi arrampicherei ancora sulla porta di Santa Chiara.
Disegnerei sul muro la parola amore come fanno i ragazzi del Sud e in una stella cadente mi accorgerei di averla vissuta sì questa parola, ma forse mai davvero pronunciata.
Ma è già Sud. Uah. E la magia si consuma sotto gli ombrelloni di montagna e sopra gli ombrelloni della riva con il mare che si solleva come una tenda di raso color ocra.

Foto Nicola GiulianoColonna sonora: Animale di zona

Cartoline andaluse

In Andalusia si va per l’ultima spremuta di limone milanese. Dal Sud non esistono voli a 45€ a/r e quindi o ora o mai più. In Andalusia si mette il cuore oltre l’ostacolo. Si parte scavalcando 14 colli diretti nel Mezzogiorno, il primo vero trasloco della vita da un monolocale con fiocchi di polvere e sentimento.

In Andalusia le ragazze come me si sentono a casa appena mettono il sandalo fuori dal bus. Di sandali ne ho buttati 3 paia in Andalusia, consumandomi  caviglie e duroni, ginocchia e melatonina. Andando todo el dia con uno spagnolo sgangherato, la faccia gonfia di sonno e gli occhi pieni di sorriso. La gioia delle cose che scorrono sui lunghi campi di olivi, senza perchè. Olè.

A Sevilla amicheggio, l’amica prepara la cena vegana al ritorno dall’Alcazar e un materasso a terra incastrato tra la sua stanza e quella di un tipo a cui piace fare all’amore. Non lo ascolto tatuandomi  nel cervello  azuelos,  negozi di scarpe, il panino con jamon iberico, la tostada, la Lonely Planet, amica di tante mattine in giro come le antropologhe americane. Sola. Sola con me.

Sevilla is flamenco che è uno stile di vita, un sentimiento, una cosa che non si può capire, né spiegare, né ballare, né cantare se non stai tutto il giorno a Sevilla. Il compas non si può contare. Sevilla io me la credevo cafona, perché io quando penso alla Spagna mi viene sempre in mente Napoli invece i Sevillani amano Sevilla, la banda, la pista ciclabile, Triana, oh Triana e la sindrome di Stendhal.

Sevilla  la cammino notte e giorno, una rissa, i tassisti ubriachi, abboffarsi di tinto de verano e di un momento da femmine. Uno scambio d’abiti, un gossip, un concerto, una bailaora sexy, le gnoras. Essere femmine non ce lo  nega mai nessuno e arriccio le ciglia a suon di rimmel e aggrotto le sopracciglia di fronte a sto mondo strano di gente internazionale che non si muove se non fa couch surfing.

A Cadiz ho freddo e caldo e imparo a farmi l’autoscatto e perdo tempo così. A farmi le foto nel vento. Mi perdo tra i barrios e mi faccio una tapas di porco sale e limone alla Manteca, in mezzo alle foto dei toreador. Vago, vago vago durante le ore di siesta, cerco il mare tra vicoli sempre più stretti coperti di hibiscus e jacaranda.

Cordoba è lunga, la amo e la odio. Perdiamo il bus della sera con gli occhi già carichi di meraviglie e balconcini perfetti e vasi dipinti a mano e prendiamo quello della mattina ma io non ho più l’età per sciacquarmi i piedi nel lavandino della stazione e reggere le palpebre con gli stuzzicadenti. Nessun turista si è fatto a Cordoba più tapas di noi e quando anche i bar chiudono ce ne andiamo alla Feria a sognare un abito a balze e a volteggiare nel casino e la musica e le lucine e il freddo del mattino. Ho i piedi tagliati dalle ore e dai chilometri e vorrei solo svenire ma nel bus per Sevilla non dormo, penso solo a cosa mettere nello zaino e dopo un’ora sono già in quello per.

Granada a debito di sonno e scoprire un vecchio amico nel mio stesso ostello di quelli che ti offrono e ti fanno sentire coccolata. La pace dell’Alhambra in cui tutto scorre e si rigenera mi sconcerta: le fontane, il roseto, i giardini perfetti, lo scroscio dell’acqua. Ma non mi basta e vado oltre il limite, oltre la coreana con cui ci scattiamo le foto a vicenda. Su una scia mistica salgo a piedi fino all’ultima chiesa del Sacromonte, fino alle cuevas occupate, perché se non mi faccio una chiacchiera con i gitanos, se non sparlo dei giri che vanno lì a vedere i tablao flamenchi con il pacchetto dell’hotel io è come se in Andalusia non ci fossi mai andata. Rischio e mi va bene. E alla fine riesco pure a vedermi uno spettacolo di un bailaor maschio  sudatissimo e con duende.

Dall’Andalusia si torna con tutta la toletta per il matrimonio dell’amica. Borsa e scarpe sapore iberico contemporaneo. E quando nell’ultimo scorcio di Sevilla, di fronte a un paio di orecchini il commesso gay azzarda

forse un pò troppo flamenchi…

E perchè, io non soy una chica andalusa?

Santo Wines

Dello scioglimento dei ghiacci

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In vacanza si cerca sole cuore amore e tutte quelle cose calde in grado di sciogliere i cubetti di ghiaccio della routine quotidiana.

In Vacanza a Santorini un bianco cadavere milanese che vede i soli raggi del neon va alla ricerca di un’ insolazione cruda e dei raggi uvb nelle ore di punta.

Il meltemi soffia, il grasso avanza e sulle scottature applichi un’e Continue reading

Budapest

ponte di notte

E poi, dopo due anni di lavoro sacrificale, dico ciao e me ne vado sul Ponte delle Catene a Budapest. Che se il Danubio fosse stato il cesso del mondo, io ci avrei sentito il profumo di violetta, talmente era la voglia di.

Ma Budapest è una bella strana particolare inafferrabile città. Una città in bilico su sette ponti che collegano un passato monumentale a uno stile secco di impronta comunista che si attacca a tutto: alla metro, ai vestiti della gente, alla brutalità delle commesse nei negozi, alle piastrelle bianche delle terme.

Ai massaggi. Ti stendi su un lettino d’ospedale e sotto un neon furente, ti immoli al tuo lottatore di sumo, che senza troppi salamelecchi di aromaterapia e fiori di Bach, ti smonta tutte le ossa e tutti gli accumuli di cellulite che alla fine i tuoi capillari urlano: pietà!

La luce della neve e le acque calde.

Ma tu lo sapevi che Estee Lauder è ungherese?

 Di ungherese conosco solo Cicciolina.

La testa a -8 e il corpo a 40 gradi, le percezioni si confondono nelle bolle dell’idromassaggio e i vapori dissolvono i contorni di un enorme edificio liberty.

Le scarpe da trekking fanno male ma si canta flamenquito, vecchi tormentoni tardo adolescenziali, affiorano ricordi di promiscuità e sauna party, tra un rutto a cipolla e un langos più fritto della pizza fritta, che sale su fino a sera. Ma sono passati sette anni e noi siamo ragazze che parlano di cose serie in una stanza d’albergo quattro stelle superior.

Si esce dal centro, per guardare in faccia la recessione e le mani delle donne consumate dalle troppe faccende. Al mercato si contratta con la calcolatrice, perché la lingua è troppo ostica, anche per filo nordiche come noi.

Fa freddo e io faccio un po’ di fatica a dimenticarmi di tutto.

Ma poi, uscita dai circuiti imbrigliati della Lonely Planet, con la carta d’identità nelle mutande, sento finalmente di dominare la città e quella piacevole sensazione di stacco affiora.

Mi specchio nel Danubio e non vedo Giovanna d’arco.

Vedo me stessa, un po’ sfilacciata, ma illuminata dalle mille migliaia di lucine nel palazzo del Parlamento.

Consiglio ai naviganti: Andateci prima che entri l’euro e non fate mai passare due anni tra un viaggio e l’altro. Mai.

Sicily

Unni lu tempu si fermàu

Sicily è un attimo che dura quattro giorni. Quattro giorni per diventare selvaggio e poi sfumare, come il profumo di Dolce e Gabbana, come la poesia di Quasimodo a Tindari, come lo zolfo di Vulcano che resta sulla pelle quarantottore.

Sicily è un quadro impressionista, un after tra Catania e le Eolie, una pennellata, col cervello che non macina, il cuore che non calcola e gli occhi che non si chiudono.

Mai.

Sicily è una granita, un arancino, capelli di mare, ricerca estenuante di un sasso a MonteGiove da lasciare poi lì, sul comodino.

Non attaccarsi a nulla, se non a stilemi dialettali e quattro risate, mare su quattro lati, vociare di primo mattino che si sgretola sul sole che picchia.

Sempre.

Sicily è Storia di una Capinera, un tuffo nel barocco, una risata che una maschera, una facciata che è dei Pupi, un salotto che è borbonico, una razza che è cugina, il regno delle due Sicilie, ma in Sicily tutte cose sono  lente, ancora più lente, abbandonate, ancora più abbandonate, chiuse, ancora più chiuse, lasciate lì a  corrodersi e a disidratarsi.

Sicily sono le reti dei pescatori di Aci Castello, col mare scuro che si increspa mentre i bambini giocano a pallone in piazza.

Non sai più se pensare a Verga o alle Sirene di Ulisse, ma Sicily ti cattura, ti ammalia, ti assuefa lentamente nelle immagini iperboliche delle candelore o nelle fantasie di una casa alle pendici dell’Etna.

Sicily, per staccarsi dal continente e dare, come dice Ligabue un colpo al cerchio ed un colpo all’anima. All’anima.