Nanniné

IMG-20160103-WA0015Avresti voluto vedermi con l’abito bianco Nanninè non senza la raccomandazione che marito e moglie devono stare accuciunegliati, vicini vicini, come cuccioli. Come i conigli.

Ma quando anni fa mi lasciai col fidanzato abbandonandomi sul divano alzasti il telefono e dicesti: uè devi uscire a nonna, che devi fare a casa, piangerti a Carnevale?

Il significato dell’espressione chiagnere Carnevale ancora non l’ho capito, ma devo ammettere che, evocandomi l’immagine di maschere mostruose e sofferenti, fosti molto incisiva.

Mi sono chiesta che ne sapevi tu della vita di coppia, rimasta vedova con quattro criature piccerelle a trentatré anni, l’ ann e Crist, la mia età di adesso.

Non uscirò alle 4 del mattino a fare le pulizie delle Ferrovie dello Stato portandomi a casa carta igienica ruvida e spessa. Non dovrò stare in guardia da uomini insidiosi lungo vagoni bui e fetidi e andare a dormire alle nove di sera morta di stanchezza. E questo anche grazie a te.

E come tua figlia Romilda anni dopo, ti votasti a quella legge monogamica e monoteista che avevo già sperimentato con l’altra nonna: unico Dio, unico uomo.

Come se stesse scritto nelle stelle che queste donne del Sud della mia famiglia dovessero rimanere sole un poco a litigare, un poco a farsi compagnia profondendo intorno a loro un amore quasi teatrale, una voragine affettiva che, come l’onda del mare, risucchia e butta fuori.

La tua esperienza in fatto di coppie era certo frutto del consumo vorace delle telenovelas di Grecia Colmenares. Manuela, in cui la stessa protagonista aveva i capelli sia biondi che neri,  era una nostra passione comune. Che soddisfazione per te quando dopo un’estate trascorsa fuori al balcone a studiare copioni passai il test di Un posto al Sole!

Di nonno Marcello parlavi raramente, troppo presa dall’affollato presente: i figli, i nipoti, le amiche della chiesa, le letture e le canzoni sacre che canticchiavi mentre stendevi e ritiravi il bucato bianchissimo, facevi le verdure arrostite, ti succhiavi le teste del pesce e riordinavi cassetti e mobili, la tua ossessione.

Tu sei la mia vita, altro io non ho. Tu sei la mia strada la mia veritaaaaaaaa….

A un certo punto hai smesso di fare i succhi di frutta, le melanzane sott’olio e le alici marinate. A un certo punto gli anni sono scivolati tutti nella bottiglia di vetro della Zuegg e non mi accompagnavi più a messa tenendomi per mano, consentendomi persino di rimproverare per la loro volgarità le vecchie che entravano nella chiesa di Pugliano con le calze rosse. E quella mia nipote va a scuola dalle suore, le studia queste cose.  Alle tue figlie non consentivi nulla, dovevano solo scattare. Titina, Romilda e Anna: tre api operaie intorno all’unica Ape Regina che eri sempre e solo tu. Avevi una mente geniale, vigile, scientifica, lo sguardo vispo, un’innata attitudine al calcolo e una personalità fragile che la vita aveva reso dirompente. Eppure l’italiano scolastico di una bambina come me, quell’italiano che dominavi poco ed esibivi nelle occasioni pubbliche modificando anche il tono della voce, ti ammaliava quasi fino a soggiogarti.

Io non ero per te solo la figlia della figlia Anna, che porta lo stesso nome della mamma e della nonna, ero anche un incantatore di serpenti. Ero il riscatto, ero l’eccezione, ero il futuro. Non come i gingilli che custodivi gelosamente nelle vetrinette. Io ero la bomboniera che poteva andare in giro per il mondo, a cui tutto era concesso. Lasci’ a sta, lasciala stare, Annù.

Le tue figlie no, dovevano stare là a raccontarti pedissequamente le nostre vite e a contare cento volte Babbi Natale e Uova della Kinder che facevi trovare a nipoti, pronipoti e fidanzati in tutte le feste comandate.  E con i racconti e con quella scappata che tutti facevamo di ritorno dalla Lombardia, dall’Emilia, dalla Toscana eri una donna a modo tuo felice e appagata.

Mi mancherai Nanninè. Mi mancherai sia dolce che sfrenata. Sia elegante che con la camicia di notte di lino. Mi mancherà la tua personalità ribelle. Tua la risata, lo sfottò, la malaparola, il calore della grande casa nel rione più elegante che potevi sognare, le manie da protagonista, la fissazione della magrezza e dell’abbronzatura. Il ricordo di un poco di mare con te sullo scoglietto del Pezzolo. Gli occhi pieni di vita sciagurata ma sempre brillanti.

Hai sempre rifiutato gli orpelli, gli ausili e le protesi. Mai la dentiera, mai l’apparecchio acustico. No ai cerotti, alle coperte, gli aghi, no all’ossigeno. Pure in fin di vita. Ti abbiamo dovuto mantenere le mani.

Grazie per avermi comunicato il sentimento di essere importanti ed indispensabili. E soprattutto, grazie di aver colto la mia difficoltà a farmi spazio nei buffet, familiari e non. Che motivo avevo di allungare la mano, se dietro le spalle c’eri sempre tu che mi riempivi il piatto alluccando mangia e Min’ncuorp ?

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