Category: Cinemà

L’uomo dal cuore di ferro

E’ vero, non stiamo parlando del mostro sacro Schlinder’s list e nemmeno del delicato Lettere da Berlino, eppure il film L’ Uomo dal Cuore di Ferro di Cèdric Jimenez, in uscita oggi, meriterebbe una sosta al cinema.

A 72 ore dal Giorno della Memoria per le vittime dell’Olocausto, ben venga una rispolverata di storia. Perché se di fronte ai nomi di Hitler, Goebbels e Himmler, riusciremmo, chi più chi meno, a impapocchiare una risposta, è altissimo il rischio di scena muta di fronte alla domanda:

Chi è Reinhard Heydrich?

ll regista francese Jimenez (e ancor prima lo scrittore Laurent Binet in HHhH, libro a cui la sceneggiatura è ispirata), invece, punta tutto sulla figura di Heydrich (Jason Clarke). Dall’espulsione dall’esercito tedesco a vertici del Partito Nazista, l’ascesa del personaggio è rapidissima:

  • Capo dell’ Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich
  • Governatore di Boemia e Moravia e, soprattutto,
  • la Mente della Soluzione Finale, il piano sistematico di sterminio degli ebrei in Europa.

Siamo a Praga, è il 27 maggio del 1942.

In una curva appena fuori dalla città due paracadutisti diventati “amici di sventura”, Jan Kubiš (Jack O’Connell) e Jozef Gabĉík (Jack Reinor), poco più che adolescenti, aspettano con ansia il passaggio di una Mercedes decappottabile con a bordo la “ bestia bionda”. Si tratta di un attentato a tutti gli effetti, organizzato dalla Resistenza Cecoslovacca con l’appoggio dell’Inghilterra per creare la prima grande crepa nella perfetta architettura nazista.

Più che soffermarsi sull’attentato e sulle sue tragiche conseguenze, il regista scava nel vissuto dei personaggi come a voler afferrare il perché di scelte così estreme e antitetiche (Heydrich vs Jan e Josef; Nazismo vs Resistenza).

“Questi due aspetti della storia sono molto importanti per me –   spiega Jimenez- perché mostrano da una parte l’evoluzione del male e dall’altra parte, troviamo in contrapposizione l’altruismo e la bontà; in entrambi i casi si tratta di cambiare il mondo.         I Nazisti volevano cambiare il mondo a loro immagine, mentre la   Resistenza voleva ripristinare il mondo e ristabilire l’ordine    preesistente delle cose.”

Sin dalle prime scene appare chiaro che Heydrich, dovrà imporre a se stesso una ferrea disciplina, per guadagnarsi l’appellativo di Uomo dal Cuore di Ferro, affibbiatogli dal Fuhrer stesso in segno di stima, diventare nell’immaginario collettivo HHhH ovvero Himmlers’ Hirn heiβT Heydrich il cervello di Himmeler si chiama Heydrich, fino ad essere conosciuto solo come il Macellaio di Praga, al culmine delle persecuzioni efferate.

Un cuore di ferro richiede un impegno notevole: lunghi e silenziosi duelli di scherma. Devozione ad Himmler, che ricambierà questa fedeltà restando accanto alla famiglia Heydrich anche quando gli eventi precipiteranno. Musica classica per favorire strategia e pensiero. Diffidenza, spirito di osservazione, ricatto. Il matrimonio giusto. E’ infatti Lina Von Osten (Rosamunde Pike), bella e carismatica ex aristocratica in cerca di riscatto, ad introdurre Heydrich al Partito Nazista e a regalargli una famiglia ariana da rotocalco, prima di essere progressivamente accantonata e fagocitata dalla sete di potere del marito.

“All’inizio del film la figura di Lina è più forte quella di      Reinhard afferma il regista. Il dramma inizierà a consumarsi nel  momento in cui la figura di Reinhard diverrà più forte all'interno della coppia, lei ha voluto creare un mostro, ma quando crei un   mostro, puoi pure aspettarti che provi a sbranare anche te. Lina  rappresenta l’errore di chi vedeva nel nazismo una soluzione”.

Mentre l’amore tra Heydrich e Lina si consuma lentamente, quello tra Jan e Anna (Mia Wasikowska), una simpatizzante della Resistenza, brucia, aumentando d’intensità quanto più il piano di Jan e Jozef di uccidere la “bestia bionda” si definisce.

Nelle maglie della Resistenza l’atmosfera è tutt’altra. Non c’è tempo per i pianoforti e i violini delle case naziste: l’aria che tira sa di coprifuoco, paura e polvere da sparo. E’ una fitta trama di nascondigli, menzogne, sotterfugi, alleanze, false identità. Ma è anche una realtà affascinante, in cui regnano sentimenti di fratellanza, condivisione, coraggio.

La Rete di Uomini e Donne che si stringe intorno al piano di Jan e Jozef, consacrati a diventare giovanissimi eroi all’ombra di una cripta di una chiesa, ultimo simbolico nascondiglio, non cede. Molti sceglieranno di tacere anche sotto tortura. Altri  preferiranno togliersi la vita con il cianuro piuttosto che consegnarsi al nemico e rinunciare al loro ideale di libertà.

Le conseguenze dell’attentato non tarderanno a manifestarsi. La risposta nazista alla granata lanciata contro  Heydrich fu radere al suolo le città di Lidice e Ležáky, sospettate di aver ospitato cellule della Resistenza e deportare gli abitanti nei campi di concentramento.

Ma era già tardi ormai. Il più alto ufficiale di rango nazista era stato colpito e nulla sarebbe più stato come prima.

 

 

 

Pelé

Sono nata nel 1982. I tifosi dicono che non è un anno qualsiasi. E’ l’anno. L’anno in cui l’Italia vinse la coppa del mondo. Sono nata nel 1982, in provincia di Napoli. Per me è normale che, mentre cammini ai Tribunali, ti ritrovi davanti un’icona votiva. Dentro la teca, però, non c’è l’ immaginetta della Madonna, ma un capello del pibe de oro, Sua Santità Diego Armando Maradona.

maradona-capelloMaradona e’ meglio ‘e Pele’ ci hanno fatto ‘o mazz’ tant pe’ll ave’…

Lo stadio? Questo sconosciuto. Il fuorigioco? Un cruciverba lasciato a metà.

Il ritornello Maradona e’ meglio ‘e Pele’, simbolo della curva B degli anni ’90 e colonna sonora della domenica di mio zio Geremia, divisa tra il ragù in canottiera e la radiolina che trasmette la partita, è tutto quello che so di calcio. E soprattutto, è tutto quello che la mia memoria riesce a raccattare su Edson Arantes Do Nascimiento: al secolo, Pelé. E’ con questo bagaglio sgarrupato che mi accosto al film dei fratelli Zimbalist, al cinema dal 26 maggio.

Pelé E’ vero, di calcio non so niente. Ma la fatica la capisco. La corsa contro il tempo, chi si ferma è perduto, fare poco, sempre e bene che a pilo a pilo se fa o’ penniello. Essere figli dei buoni consigli, essere dei buoni figli ed essere, nello stesso tempo, figli di nessuno. Avere fame e sete. Solo la fame di autoaffermazione, oltre la coltre dei sacrifici paterni, ti fa correre sulla breccia senza scarpe, ti fa usare un mango al posto di un pallone, ti fa tirare calci contro un palo per tutta la notte, per quella rete che verrà, se verrà, dovrà venire.

E’ nell’assenza di limiti fisici e mentali che Pelé diventa Pelé. Non si tratta solo di essere i più dotati del villaggio. E’ prendere coscienza, resistere nel corridoio della diversità, sapersi fermare, mettere a fuoco l’azione che verrà. Prevedere, vedere oltre, immaginare, sognare.

Nel flamenco, si giudica bravo un ballerino si tiene duende. Il duende è quello spirito, quell’anima, quel sentire tipicamente flamenco, quella strana alchimia tra dolore e passione, quel guizzo che tutti riconoscono, immediatamente, nell’intenzione creativa di Joaquín Cortés, per esempio.

Nel calcio brasiliano, questo quid, questa frenesia tipica si chiama ginga. La ginga è il passo base della capoeira, ma ci suona più familiare se pensiamo ai tentativi di palleggio fatti in tutti i cortili del mondo tentando di imitare quel calcio grezzo e acrobatico, colpo di testa, palleggio, pressing veloce, dribbling aggressivo, tiro spettacolare dei nostri padri, zii, cugini, compagni di classe, amici.

La ginga non è solo uno stile di gioco. E’ un modo di essere. E’ bandiera, fischietto, musica, danza, favela, corsa, risata, carioca. E’ la radice.

E’ l’unica arma di cui Pelè, a soli 17 anni, può disporre per uscire e fare uscire il Brasile dal senso di inferiorità in cui versa dal 16 luglio 1950, anno del Maracanazo, l’ epocale sconfitta contro l’Uruguay.

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Ma dove vai, se la squadra non ce l’hai? Non si diventa campioni da soli. Pure Pelè ha bisogno di un altro in carne ed ossa che gli passi metaforicamente la palla, riconoscendolo, legittimandolo, affidandogli la responsabilità, il rischio del tiro, l’ebbrezza della vittoria, la celebrità.

Senza Josè, non c’è Pelè. E’ solo quando il suo rivale d’infanzia, il bianco su cui l’allenatore aveva puntato tutto nel campionato contro la Svezia, il giocatore che aveva sempre sognato di essere europeo, lo esorta ad usare la ginga e a scendere in campo da brasiliano che Pelé può finalmente giocare come Pelé.

E’ il 1958 e il Brasile è il primo paese sudamericano a vincere su suolo europeo. Tutto il resto, per chi ha la fortuna di non avere un bagaglio calcistico sgarrupato come il mio, è storia. Come il 1982, non un anno qualsiasi.

Come saltano i pesci

Unirsi al branco o saltare fuori dalla rete? L’importante è vivere

Matteo (Simone Riccioni) è un bel ragazzo che vive in una famiglia quasi perfetta. Occhi a mandorla, fisico nervoso e una cascata di riccioli neri per cui la postina del paese Francesca (Sarah Maestri), farebbe carte false. Ma Matteo, non se ne cura. La sua è l’ingenuità del bello inconsapevole. Ha una vita piena: si barcamena tra l’officina ereditata da papà Italo (Giorgio Colangeli) e le commissioni in furgoncino con Giulia (Maria Paola Rosini), la sorella minore con sindrome di down, che, terrorizzata dal distacco, boicotta in tutti i modi la sua partenza per Maranello e il sogno di diventare meccanico della Ferrari.

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Angela (Marianna Di Martino) ha talento per il disegno, un’anima romantica corazzata dietro un look ribelle, una magrezza eccessiva e la voce graffiata. Dorme in un garage, è senza quattrini e frequenta tutti i rave del marchigiano. Sempre in fuga e alla ricerca di nuove emozioni, è la pecora nera di una famiglia imperfetta.

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Sandro (Biagio Izzo) è un giocatore d’azzardo. Le carte sono il suo unico mondo. E’ un battitore libero, uno che in famiglia ci è finito per sbaglio. E’ al bar che torna dopo essere stato pestato a causa di chissà quale debito e, chiuso in uno stanzino senza segnale, non fa in tempo neppure ad accorgersi che la moglie è morta e il figlio Luca (Brenno Placido), sta tornando dopo molti anni per mare.

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La morte della moglie di Sandro scuote irrimediabilmente le vite di tutti i personaggi. Matteo scopre da una telefonata improvvisa che Mariella (Maria Amelia Monti) non è la sua madre naturale e decide di intraprendere un viaggio verso la verità del suo passato.

Matteo non sa dell’esistenza di Luca. Luca invece, ha sempre saputo di Matteo e ha trascorso l’infanzia all’ombra del ricordo del fratello. L’ottimismo del primo e il doloroso cinismo dell’altro dovranno fare i conti con questa nuova situazione.

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Le tensioni di un passato ricco di segreti, tradimenti e gelosie, non sembrano sopirsi. Tra gli adulti va peggio che tra i ragazzi: il funerale finisce addirittura “a mazzate” tra i due papà Italo e Sandro. Solo lo spavento causato dalla scomparsa della piccola Giulia, muove questo caotico (ma molto simpatico) agglomerato di persone verso un obiettivo comune: nella ricerca della ragazzina ognuno sembra ritrovare il bandolo della propria identità perduta. Angela, che imbambola ora Matteo, ora Luca, spandendo ferormoni e fluido seduttivo, distrae da un finale troppo denso di colpi di scena e intrecci. Ma né la liason amorosa né il possibile triangolo tra Angela e i due fratelli sono il focus del regista Alessandro Valori.

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Ciò che conta è il salto finale, la corsa liberatoria verso il mare,  è come reagiamo agli imprevisti e alle sbavature della vita. Come ci rialziamo. Come ci rimescoliamo.

Come saltano i pesci è un bel mosaico di strategie di sopravvivenza: come i pesci nel mare, c’è chi si unisce al branco e chi prova a saltare fuori dalle reti. L’importante è restare sempre a galla ed imparare ogni volta a vivere.

Consigliato a: chi cerca un film leggero e garbato, italianissimo e moderno, con molti spunti di riflessione su temi non banali; ai voyeur della fiction di casa nostra che troveranno il casting molto interessante.

Dal 30 marzo al cinema

Ruth & Alex

Tra la Brianza e l’Adda cerco la mia Brooklyn

Solo a Milano ho cambiato tre case. Poi mi sono trasferita a Monza e nel weekend faccio avanti e dietro dalla campagna, nell’Adda. Cinque case in sette anni fa in media una ogni anno e mezzo. La rivoluzione non è il numero, ma chiudere la porta dell’attico vista Darsena e spostarmi in periferia.

Te ne vai in Brianza, sei pazza?! Lì sono sfondati di soldi, provinciali, vivono per le apparenze, cattivi. Sì, cattivi! L’hai visto il film il Capitale Umano? Ma che ci fai sull’Adda? Non sei tipa da fare marmellate nel weekend.

Buon Dio: cosa c’entrano le marmellate?

Con queste premesse la frase di Morgan Freeman che apre il film “Ruth e Alex, l’amore cerca casa” di Richard Loncraine avrei potuto pronunciarla io, tale e quale, alla vigilia del mio trasferimento.

Quando io e Ruth ci trasferimmo a Brooklyn, era una sorta di avamposto. Per i nostri amici di Manhattan era come se ci fossimo trasferiti in Nebraska. Non era di moda, ma era un posto giusto per artisti in difficoltà come me e poi a noi piaceva, il che non guastava perché era il massimo che potevamo permetterci.

Ruth (Diane Keaton) e Alex, insieme da quarant’anni, decidono di mettere in vendita la loro casa in un condominio senza ascensore perché sono diventati vecchi e non ce la fanno più a fare le scale. In realtà, come avviene in molte coppie, è lei a fare pressing per dare una svolta alla loro relazione, solida ma senza dubbio agèe.

Lui non è convinto. Ama il suo rituale quotidiano scandito dalla passeggiatina col cane Dorothy, la colazione take away, il Tg sul divano, i pomodori in vaso sull’attico only- in- New York, dipingere quando gli viene l’ispirazione (uomini, udite: sua moglie dopo quarant’anni è ancora una  musa).

Tutto si svolge in tre giorni. Se si osservano Ruth e Alex sembrano trascorrere trent’anni. La sfida di formare una coppia interraziale, di affermarsi come professionisti di successo e forse anche la nostalgia di un figlio. Se si osserva Lily (Cinthya Nixon, Miranda di Sex and the City), nipote di Ruth ed energico squalo dell’immobiliare, tutto sembra dover accadere in tre minuti.

Tanto la loro storia appare lenta e il loro legame granitico, tanto New York convulsa e inafferrabile. Taxi fermi ai semafori, attentati terroristici, guerre tra agenti immobiliari, appartamenti aperti a “visite libere”, ovvero invasioni di sconosciuti che dopo aver testato la comodità del letto (il tuo letto) per qualche ora cominciano un’ asta all’ultimo sangue.

Alla fine la spunta lei, Ruth/Diane, di cui Alex è ancora innamoratissimo e di cui Freeman, attore e produttore esecutivo del film, è sempre stato fan: “è stato una gioia farle la corte”. Ma è proprio quando Alex decide dentro di sé di valutare l’appartamento scelto dalla moglie che qualcosa cambia e la coppia si ritrova di fronte ad un nuovo punto di partenza.

Il film, tratto dal romanzo “Heroic Measures” di Jill Clement sembra volerci  dire che per capire cosa davvero ci rende felici bisogna rischiare e provare. Potremmo accorgerci che ciò che avevamo sempre desiderato è proprio sotto i nostri occhi.

A proposito, qualcuno sa se a Milano esistono le “visite libere”? Chiedo solo per curiosità. Sai mai che mi dimentichi le marmellate sul fuoco..

Consigliato a: chi non cerca un polpettone esistenziale e vuole rilassarsi. A tutti quelli che cercano casa e vivono una fase di impasse. A chi non crede che possa esserci qualcosa dopo il basic instinct.

Se cerchi casa e soprattutto, se cerchi casa a Milano, potrebbero interessarti anche:

Monoglobale La Carla Il Coinquilino

 

Good As You

Quando GAY oltre che felice è pure divertente

A tutti è successo almeno una volta nella vita di trascorrere un capodanno tra sconosciuti. O di imbucarsi a una festa di amici di amici di amici. O guardare l’alba in spiaggia dopo i bagordi a scambiarsi considerazioni improbabili mentre il mascara cola e la nausea si aggrappa allo stomaco.

 Sentimentalmente sono le situazioni più fertili, in cui può accadere davvero di tutto. Ci si innamora, ci si lascia, si diventa amici, si litiga via sms, o ci si emoziona, solamente. Il brivido dell’attesa, lo strappo di un addio, l’impeto della vita.

Ecco, il film di Mariano Lamberti “Good As You”, acronimo di GAY, in anteprima mercoledì 21 marzo al cinema Apollo di Milano, racconta tutto questo, calandolo nel mondo omosessuale. I protagonisti, infatti, sono otto gay e lesbiche alle prese con la ricerca dell’amore. Un amore che è chimera, amicizia mascherata, sempre carnale, ossessivo, intricato.

 Ma quale amore non lo è.

Noi dovemoce solo divertì, no?! Noi si esce da una favola, non è vero?

Dice Mara (Elisa Di Eusanio), il “masculone” della compagnia, all’ ex fidanzata che si riscopre etero, riferendosi allo stereotipo che gli etero hanno del mondo omosessuale. Un mondo colorato, superficiale, il mondo di una botta e via.

 Certo il primo che attinge ai clichè del mondo gay è il film stesso, pieno di doppi sensi, battute al vetriolo, sketch divertenti. Ci sono le love story nate in chat, i travestimenti, il poster di Madonna, il botox, la Mucca Assassina, la voce delle sorelle Kessler, i corpi di marmo dentro le saune, i gay camuffati, i trans, i bisex, le checche, i sieropositivi. C’è il gay pride e l’inseminazione artificiale.

 (C’è Luca Dorigo, che avevamo lasciato sul trono di Uomini e Donne che si cimenta in un improbabile spagnolo da cui proprio non riesce a estirpare la cadenza veneta).

Film divertente, quando non ricorda troppo il gruppo di amici di Ma che Colpa Abbiamo noi di Carlo Verdone ed è molto più rinfrancante di una bella commedia americana. Le gioie e i dolori della famiglia gay allargata le avevamo già viste nelle Fate Ignoranti e in Saturno Contro di Ozpetek, ma la comicità romana che inchioda e attinge davvero dal mondo gay, merita una visita di tutti.

Ufficio Stampa: REGGI&SPIZZICHINO Communication

Somewhere

Da qualche parte alle tre del pomeriggio

Elle Fanning

Alle tre del pomeriggio del primo vero giorno d’autunno decidi di dare una svolta culturale alla tua giornata e il cinema delle tre del pomeriggio ti sembra un’esperienza abbastanza nuova e abbastanza culturale.

Quando mai ti ricapiterà di non lavorare di venerdì alle tre del pomeriggio? (Domanda retorico nevrotica).

E cinema fu.

Alle tre del pomeriggio è l’unico momento della storia del cinema a Milano in cui non ti trattano male al botteghino. La tizia grassoccia e blue- eyed sembra quasi dispiaciuta che tu stia pagando per andare a vedere un film, il biglietto costa due ero in meno rispetto alla tariffa standard e per un ovvio risparmio di risorse, non c’è lo stacca biglietti.

La sala delle tre del pomeriggio è vuota e comoda.

Il film delle tre del pomeriggio è un film a tema: silenzioso e surreale. E’ Somewhere di Sofia Coppola che mi ha innervosito per l’assenza di trama e dialoghi, ma mi è rimasto appiccicato addosso per alcuni movimenti di camera. Un film per snob, l’hanno definito.

Un film perfetto per le tre del pomeriggio a stomaco vuoto quando fuori è umido e tu hai dormito tanto dopo una vita che non dormivi e ti senti lievemente nauseato. Film sconsigliato agli insofferenti.

 I pazienti e i cultori di Sofia Coppola dovrebbero vederlo per:

-scena del pattinaggio

-scena della maschera

-scena sull’ Italia in cui la Ventura e la Marini interpretano se stesse

-scena subacquea della piscina.

 Stop.

I ciechi dovrebbero vederlo per le musiche dei Phoenix, la cosa migliore di tutto il film.

 Ma il vero colpo di scena è il pubblico delle tre del pomeriggio.

 Ecco perchè quel profumo di gelsomino, rosa,  vetiver, colonia, quel tanfo di naftalina.

I vecchi delle tre del pomeriggio.

Ma con il mio unico capello bianco ben dissipato nella frangia, ho pensato che alle tre del pomeriggio era troppo presto per sentirsi già un outsider. 

Debito d'ossigeno

un documentario di Giovanni Calamari – da qulche parte bisogna pur cominciare.

Ci siamo conosciuti su un’isola, quando lui era un regista di matrimoni – matrimoni vips, dove gli sposi  nel filmino non corrono mano nella mano tra le onde sulle note di Gigi d’Alessio – e io la ragazza dell’acqua e limone.

Ovvio che col passare dei secoli, fosse solo come tribute a tutti quei limoni spremuti vestita da ancella, io andassi a vedere il suo documentario,  proiettato in un cinema d’essay di Milano, roba per gente con la erre moscia, occhialuti incappottati, intellettualoidi di sinistra e pesantoni come me.

D’altronde alla sfogliatella arrivo con animo buono: vedi Merin, lui fa cinema e tu non spremi più limoni da un po’ eppoi dicono che piove sempre sul bagnato. Tsè.

Poi in sala si spengono le luci e succede qualcosa. Mi manca l’aria. Non  subito, mi manca dopo un po’, dopo la bella musica.

Si parla di precari, si parla di me, ma molto più di me, precari più precari, quelli che hanno figli, hanno il mutuo sulle case, che perdono il lavoro a tempo indeterminato o che non possono farlo il lavoro, il loro di lavoro, quello per cui hanno studiato. Ma se vanno in cassa integrazione quelli a tempo indeterminato,  che fine fanno gli altri?

Fanno il call center, fanno  le sveglie all’alba, i piatti di pasta scotti, centinaia migliaia di piatti di spaghetti, pasta dovunque, pasta sempre,  colorito giallognolo di pasta e sogni centrifugati al succo di pomodoro.

Che si lavori dal lunedì alla domenica come la protagonista della prima storia, o che si venga licenziati all’improvviso, insieme,  marito e moglie della seconda storia, c’è un’ unica ossessione: lavoro soldi pagare, il lavoro ci nobilita, lavoro come scopo, lavoro dignitoso, lavoro del capofamiglia, lavoro mi sento utile e dò un senso alle mie giornate, lavoro non penso, lavoro non sto alla finestra a guardare gli altri che lavorano,  lavoro solo per comprare le cose a mio figlio e pagare l’affitto, lavoro mi piace, lavoro ma non ho una vita, lavoro mi stordisco, lavoro dico che ho un lavoro, lavoro scelgo, insisto, lavoro faccio quello che mi capita, lavoro crollo e me vac’ a cuccà, lavoro attendo, non capisco più se lavoro o no.

I protagonisti delle storie fanno i nomi dei cattivi,  quelli che falliscono, quelli che licenziano, quelli che ben pensano: Motorola eccetera. Vivaddio. Non c’è solo Saviano che fa i nomi dei boss in questa Italietta d’Avanspettacolo.

Io non me ne intendo di cinema, ma il racconto per immagini è  una tac nelle anime dei personaggi , la descrizione cruda di un tubo senza spiraglio per i sogni e arriva, eccome se arriva.

Ma per capire meglio quello che ho visto è meglio forse andare a vedere, se capita.

E nel pensare a chi non ha mai spremuto un limone per scelta è proprio l’immagine di quei limoni su quell’isola che mi rassicura lasciando la sala. Nonostante tutto.