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Cold

Quando Milano è così fredda in tutti i sensi bisogna spingere il piede sull’acceleratore dell’esperienza e fare piccoli gesti estremi. Uscire di casa con un cappotto leggerissimo, restare in ufficio fino alle nove di sera creando, inviare curriculum a Bruxelles, inventarsi una vita immaginaria a Roma, tentare di essere violentata da un extra comunitario di colore sulla stazione e dopo averla scampata, tentare la seconda volta con un rom.

Inalare la nebbiolina del mattino che sembra una pioggerella lieve, andare a mensa da soli senza dare le spalle alla platea, senza libri, senza riviste, senza senza.

Quando fa così freddo e non sei più né nord né sud, né date, né progetti, né scadenze, ma solo organizzazione al minutaggio, servono le barrette alla fragola Lidl, che sanno di Helsinki, i cosmetici cheap con ottimo packaging, l’ascolto fino al vomito di The man I love di Billie Holiday, sostituita ogni tanto solo da That I would be good di Alanis Morrisette  immaginando di essere una pin up immersa in una vasca che affaccia su un Mediterraneo indefinito.

Who? Men

Aldilà della sindrome pre/post mestruale e delle mestruazioni stesse, essere donna è un lavoro a tempo pieno, come i supermarket no stop di New York e Tokyo.
Partendo dalla testa, bisogna monitorare costantemente:
la ricrescita delle sopracciglia
l’insorgenza dei punti neri nella zona T
l’inspessimento del baffo
l’insorgere delle rughette contorno occhi e labbra ( ma questo solo dopo i 26 nelle città ad alto tasso di smog)

Estendendo l’analisi al resto del corpo menzionerei la ricrescita dei peli intorno al capezzolo, all’ombelico, all’inguine, alla coscia, all’alluce.
Lo scrub per eliminare le cellule morte è facoltativo ma assolutamente non lo sono il check out dello stadio delle unghie mani e piedi per cui è doverosa almeno una passata di limetta e una spennellata di smalto trasparente ogni tre giorni.

E queste sono solo le mansioni di una ragazza che voglia definirsi acqua e sapone e che, in fatto di bellezza, non sarà mai sul pezzo, ritrovando nella sua enorme borsa di scartoffie il solo Labello a ciliegia che userà nell’emergenza anche come phard.

Le donne manager, ossia quelle che raggiungono le vette più alte di questo lavoro di cura di sè, aggiungono allo shampoo la piastra o il ferro, alle sopracciglia il tattoo, alle ciglia l’arricciamento, alla cera il massaggio agli oli essenziali, al dente il brillantino che è cosa buona e giusta, alle unghie le farfalline e tutti quei gadget aberranti della nail art.

Le donne manager di femminilità si alzano sempre un’ora prima anche se hanno fatto tardi, o riescono a truccarsi in metro, o hanno una Louis Vuitton con un beauty sempre all’altezza della situazione.

Se poi dall’estetica passiamo alla sostanza argomentando come una vera donna dovrebbe atteggiarsi nei confronti di un uomo, di un lavoro appagante, dell’aspettativa di avere un figlio, allora sarebbe meglio prenotare il primo volo per Casablanca o, per chi non può permettersi un cambio sesso, cominciare a fare pipì in verticale.

Il carrellino

Se una persona normale vuole fare la spesa, va al supermercato, oltrepassa la porta scorrevole, prende il carrello (il cestello sarà sempre troppo piccolo) e fa la spesa.

Se una persona densa e sovrastrutturata, come di recente è stata definita Merincontraria, vuole fare la spesa, Marte deve entrare in Venere con l’aiuto di Saturno. Ovvero:

 

  1. Il frigo deve essere vuotissimo e la spesa grande.
  2. La spesa grande esige una raccolta minuziosa di tutti gli opuscoli con le offerte di tutti i supermercati della zona passati a setaccio nel momento wc.
  3. La spesa grande esige un carrellino, come quello delle vecchie, che deve essere anche fashion, perché è meglio sembrare una border che una vecchia. 

E qui casca l’asino. Scartata l’ipotesi del carrellino del negozio di design a 59euri, resta Ikea con una buona soluzione fiorata a 15.

Detto fatto. Programma post lavoro: ACQUISTO CARRELLINO+SPESA CON CARRELLINO.

Merincontraria entra, sceglie carrellino versione rosa, afferra un ombrello gigantosfigato Ikea, passa per il mercatone Ikea ad occhi chiusi e, magia di Herry Potter, si avvia alle casse a velocità record.

MA.

Dopo aver pagato, Merin si accorge che la sua busta perde pezzi. Aiuto. Scatta l’imprevisto: operazione cambio carrellino. Immaginate la scena: Mercatone Ikea in rewind, angolo Ikea Family, carrellino nero, maledizione, la versione fiori rosa esuberante è già sold out. Arimercatone (nausea), ostenta scontrino alla cassa, arrivederci.

Tutta l’operazione pre-spesa+imprevisto richiede circa 60 minuti.

E della spesa restò solo una confezione di polpettine Ikea 1.99€ da far decongelare durante il viaggio di ritorno.

 

E il carrellino, ovviamente.

O' Mobile

Al salone del mobile vedi tutto, ma proprio tutto, tranne il mobile.

Mangi gelati aggratìs in un bosco artificiale in compagnia di tipi parruccati che vogliono insegnarti la color dance. A te che hai finto una vita di far ballare la tarantella.

Tacco punta, tacco punta, cambio.

Noggrazie, la color dance non la ballo, mi mette l’ansia, prendo però un gelato al mango e le vostre parrucche sono davvero…fighe.

Al salone del mobile bevi birra in bottiglie di vino che si chiamano Audace o Intrigante servita tra lenzuola Marimekko e puff pirotecnici.

Al salone del mobile ti vendono catenine del cesso per bracciali pop e le sorprese delle patatine per anelli cool.

Al salone del mobile bombole ad elio pompano palloni neri e tu fai volare in cielo il tuo palloncino con una frase, una richiesta, un desiderio, cosa che sarebbe molto romantica se al palloncino non fosse attaccato un codice con il tuo indirizzo mail.

Tutto questo perché se il pallone non si schiatta qualche giovine travestito da designer indipendente col ciuffo laterale ti contatterà per esaudire la tua richiesta.

E se io avessi scritto “per le vittime del terremoto”?

Possibile che Berlusconi stanotte ha trovato il mio palloncino ad Arcore e ha pensato di accontentarmi con il G8 all’ Aquila perché risparmiamo 220 milioni?Paura.

Al salone del mobile tutto è gay friendly e il salone del mobile è gay su tutta la linea perché se non sbatti le chiappe non entri nei cocktail free a vedere le sedie di ciniglia.

Al salone del mobile si va essenzialmente per fare fuorisalone e rosicchiare visibilità, perché, come dice saggiamente mia nonna, la verità è che chillo è assaje bello…o’mobile.

Monoglobale

Intro infelice con metafora. Trovare casa a Milano è  come combattere i peli incarniti: un’ impresa  (quasi) impossibile. Poi a furia di scrub e bacheche, di esfolianti e “ci penso un attimo…” eccomi nella mia mansarda armata di cacciavite, una sfinge antisesso con le spalle di Mastro Lindo e la gambe di Renato Gattuso (eliminato il problema dei peli incarniti subentra quello della doppia ricrescita).

Al monolocale e alla sua sanguinolenta solitudo-solitudinis, si arriva dopo un rituale di step obbligati:

  1. lunga condivisione di letto matrimoniale
  2. altrettanto lunga permanenza in “sala”, il porto di mare, il soggiorno da cui tutti passano, su un divano che si apre di notte sprofondando nell’abisso dandy del neo- precariato

Ma soprattutto, al monolocale e alla sua fagocitante solitudo-solitudinis, si arriva dopo essersi imbattuti in un’allegra schiera di potenziali coinquilini, che, usciti dal serial "non varcare quella porta", hanno distrutto ogni speranza di condivisione con la stessa “cazzimma” del cugino che ti dice che Babbo Natale non esiste.

L’artista: gonna zebrata asimmetrica, la sua casa puzza di chiuso, trine e merletti. E’ un’accozzaglia di oggetti strani e polverosi in cui a malapena distingui una renna di peluche da un vassoio a decupage. Il letto dell’artista vintage è faraonico, a baldacchino, dorato e le pantofole sono con le piume, col tacco, Defonseca, di tutti i tipi. La casa dell’artista è decadente come la proprietaria, che dimostra settant’anni anche se ne ha 35.

La neo-separata: dolcissima, carinissima, issima. La neo separata ha una vera casa con una vera televisione a plasma e un vero tavolo di cristallo trasparente. Ha tutti gli elettrodomestici, piumoni nuovi di zecca non Ikea, lo spremiagrumi elettrico,  i pistacchi e il succo d’arancia come aperitivo. La casa della neo-separata è precisissima come la proprietaria, che ti sfila e rinfila il cappotto, ti offre un piatto caldo, pronta a dirottare sulla nuova arrivata tutte le coccole di geisha troncata.

L’alternativa: va in bici, non si capisce che lavoro fa, ha le Converse strappate e i capelli unti. Si dice vegetariana, ma pronta a lavare i tuoi piatti sporchi di carne. Ti offre pistacchi (ancora?) e un buon bicchiere di vino. In un minuto già ha programmato la vostra amicizia, le vostre cene insieme e non vede l’ora di presentarti il suo fidanzato che spera non essere un problema tra voi due. La casa dell’alternativa  porta nel posacenere tutti i segni delle notti brave.

L’incinta: (…).

Escluse queste e le soluzioni gay-friendly, i baratti, i sud-americani di Corso Buenos Aires, il quartiere Pasteur e i sette indiani, l’invisibilità del quartiere cinese, eccomi in un monolocale che sta stretto pure a se stesso, ma che è stato mio fin da subito, per il sogno comune di trasformarci da rottami vintage in monoglobali di successo.

Il cartellino

C’è chi timbra il cartellino a lavoro e chi lo timbra con la vita.

Io, vita da precaria, il cartellino in ufficio non l’ho mai timbrato, ma con la vita, con questi due mesi di vita out of side, ho esaurito bandierine, ansia da esperienza, letti, cuscini e sfide con se stessi all’italiana.

Napoli-Milano.

Milano- Piacenza.

Milano- Trento.

Trento- Rimini.

(Bella Trento, a depilarsi le jolande con le amiche felici e nuotare tra la neve altoatesina nelle vasche delle terme di Merano. Viva i canederli, viva le sponde del fiume là sui monti con Annette, viva il vin brulè, viva l’artigianato, i mercatini di Natale, i tramonti arancioni, le schiocche rosse, il vento freddo del mattino, le fragole ricoperte di cioccolato, i laghi, parlare di se stessi e non di lavoro o di cosa passa il cinema, parlare in napoletano, parlare lento, parlare come si parla, perché il parlato è come si è dentro,  lenti, impastati, goderecci e insopportabilmente mediterranei).

No competitive. No- no- no alla Emy Winehouse.

Rimini –Bologna? No, Bologna no, voglio solo dormire 12 ore.

Rimini- Milano.

Milano- Milano palla al centro e se mi inviti al calcetto gioco in porta.

Milano – Napoli rotolando verso Sud e che Dio ce la mandi buona con l’esodo degli immigrati e la guerra all’adipe.

E poi?

Poi sprofonderemo nell’horror vacui natalizio, ma quest’anno, per la prima volta, senz’ansia di fare.

Solo di ballare, ballare, ballare tribale. Ballare autoreferenziale.

 

Wall-e

Foreign contaminant.

In assenza di fotosintesi clorofilliana avevo dimenticato una cosa.

Di essere umana.  Nella spirale fotovoltaica delle mattine milanesi il neon sostituisce il sole e lo sguardo il respiro. Yo soy Woll-e, il nervodolce robottino della Pixar di origini aragonesi. Torero, torero, olè. Non si guardano gli esseri umani da quando lo sguardo ha smesso di suscitare obblighi, ma io li spoglio questi esseri umani che non guardano, assorti negli ultimi best –seller , nelle cuffiette degli mp3 e dei cellulari, nelle cuffie anni ’80 che si portano assai, nei raggi delle bici coi cestelli rosa shocking che sbrodolano buste Upim e Oviesse. Li violento spremendo il senso dell’individualismo inconsapevole e del cocco sulla fronte, come quelli che si portavano negli anni ’80, ma con i capelli più morbidi, senza lacca, per comunicare un idea di finto spettinato sintomo di esistenze geometriche, sbiadite come gli skinny jeans lavati a 90 gradi, appesantite come il tacco a rocchetto,  scandite dal  ritmo un semaforo. Velocissimo, ansimante, orgasmico,  beato lui.

Riassuma brevemente le sue esperienze.

Foreign contaminant, foreign contaminant, scatta l’allarme dell’autodifesa e  una voce metallica racconta a cantilena la tecnofavola di Cappucetto Rosso.

La testa cerca spasmodica sacche di emozione, per risciacquarsi dallo smog come risciacquano i lavaggi degli ospedali . Lo sabe, yo soy pesado, un pesaturo, una suocera senza figli, un’ iconoclasta. Per questo non suono il citofono di Alda Merini, non ho il coraggio.

Milano è come la melanzana fuori tempo. La desideri, te la compri, la paghi il doppio, ma il suo sapore non lo acchiappi. Nun ce sta niente a fà.

Però quando non le chiedi niente, ti regala le casette immobili da guardare attraverso la tela di un ombrellino rosso,il silenzio monumentale di Sant’Ambrogio la domenica mattina, un raggio di sole inaspettato sotto un abete al Parco Sempione che ti fa ossigenare e ti salva dalla cacata di un cane. E poi, foreign contaminant, non ci resta che piangere, guardare, buttarci e contaminarci.

 

 

Napolì

E allora stop, dimentica. E io avevo dimenticato. Subito, rimosso. L’aria fredda della mattina, la lotta al sediolino, il gomito nello sterno, la fermata Villa delle Ginestre, il finestrino con gli spifferi, i giovani senza soldi e i vecchi senza pensione. Ma quelli per davvero, non quelli come noi. E poi l’ho vista. Di nuovo. Finalmente. L’ho vista quando è più bello vederla: al risveglio, col rimmel sciolto e la spallina della sottana che cade dalla spalla.

E’ una gran puttana, ho pensato.

Ma il suo inconfondibile odore di brioche calda e pesce e acqua sporca, mhmm…quanto mi sono mancati. L’ho spogliata e bevuta tutta, nel rituale di sempre, nella strada che facevo, nelle facce di ogni giorno, come la volevo, come me la ricordavo. Le bancarelle dei cd, i vetri appannati con i crocchè del giorno prima, i marocchini con gli occhi belli, gli sfaccendati con gli sguardi sopra la folla, il casino, le macchine, le due scimpanzè delle sigarette dove stanno, mica sono finite dentro? Le stelle di natale a tre euro, i pantajazz finti dimensione danza a quattr’euro, me lo compro? No, non fa niente, la devo finire di fare la pezzara. Il traffico, esce una testa di marmo porta Nolana, chi è? Non leggo, per mettermi gli occhiali vintage non ci vedo bene… E poi spacca spacca, sali dentro San Biagio, il freddo nelle orecchie, speriamo di trovare qualcuno per il caffè, il fiatone, chissà come sarebbe stato se ci avessi studiato, chissà come deve essere viverci, chissà come deve essere nascerci. Dietro al secchio della munnezza uno specchio gigante: perché? Lasciamo pulito il quartiere. Forcella? E se la camorra mi spara? Nah, cammina. Uh, ho dimenticato di guardare il Trianon Viviani. Quanto costa questa tammorra? 50. Cinquant’. Ma tu si scem’? Ueeeeeè, che abbraccio. Che intenso. Dura 4 anni che sono quattro secondi in cui si prova a raccontare ma cià cià devo andare a lavorare. Mi potrei comprare la tombola, il tamburello, il triccaballacche, la pizza di ceramica, ma non mi compro niente. Sono paralizzata e invisibile. Camomilla, il negozio, mi chiude la saracinesca in faccia, i bambini ridono e mi spingono di qua e di là, i fidanzati si amano e i Natalizi amano il Natale e il popolo fa shopping. E io? Io mi nascondo in una chiesa. E’ quella del Cristo velato? No, è la chiesa con un presepe grande grande, grandissimo, infizzato in una sacrestia retrobottega che devi fare vicoli e vicoletti come un film di Dario Argento per arrivarci. Una testa fa un movimento da dentro una finestrella e mi accende le lucine. Non lo vedo nel buio. Voglio pensare che è un vecchio. Non mi vedo nel buio. Voglio pensare che è il ciclo e che il presepe è troppo grande per mangiarmi meeeglio. Vedo solo lei: la mia città baldracca natalizia. Finalmente.

Sacralità dell' Autentico

E nella tortuosa ricerca dell’Autentico, finisco alla festa di San Gennaro.

E’ una festa privata, ma per rispetto del Santo, mi metto una mse sacrale con un lungo rosario di legno e una gonna a codè.

Sono una dark suora postmoderna.

Lo so perché per strada mi mettono i cuppetielli dietro.

A me e a wlemetafore, che sfida la folla metropolitana con uno scialletto blu elettrico in versione di Madonna Incoronata.

Sostanza e dialetto. Rieccomi nel tempio sacrale dell’amicizia dove il profumo di una ciambella al cioccolato scioglie gli aloni del mobbing. Basta così poco.

Basta il pan degli Angeli per essere felici, l’estatica contemplazione della cicatrice dell’ Altro, che porta in viso la stessa alopecia da stress che tu ti porti dentro. Alleluia.

Non attaccare il ciuccio dove dice il padrone, mi ripeto mentre avanzo in processione verso San Gennaro. Esprimo un desiderio a venti centesimi  e abbiamo anche noi il nostro lumino acceso ai piedi della statua policroma. Goodbye all’overload emozionale e alle buone maniere.

Vino dolce e salato, sguardi sopra la folla, chiacchiere folkloristiche, incontri identitari, ma al secondo bicchiere mi fermo perché l’Autentico non ha bisogno di alcol o di icone punk per esprimersi. L’Autentico è simpatico, è chiattulillo ma con fascino, ti accoglie come la pecorella smarrita,  si incarna nel femminiello vestito da San Michele, nel  culo a culo col matrone illuminato, nel  trans sulla scala  con il  vestito rosso rubino.

E’ una pizza gnommosa alle tre del mattino.

Abballi l’elettronica italiana nel covo del terzo sesso, puoi eclissarti e puoi  ridere sfruttando l’ascendente che madre natura ti ha donato sul gaio. Alla fine fai ridere e basta. Perché nello slang dell’Autentico il ridicolo è out. Decisamente out. Ammèn.