Umbria jazz

E di un weekend tra animali di zona

In mezzo alla lavanda mi sono sentita felice. Ho camminato a piedi scalzi sull’erba bagnata cercando un sassolino di tristezza, un filo di apocalissi, un profumo di struggente.E niente. Non l’ho trovato. E mi sono ricordata di quando, anni prima, la mia amica a spasso per la collina umbra mi aveva detto:

Stamattina ho fatto una di quelle passeggiate meditative in mezzo ai campi come le fai tu.

E io invece, non sono riuscita a pensare. E a parte qualche chilo in meno e la mancanza di un cavallo con cui graffiarsi le caviglie, ero quello che volevo essere. A piedi nudi, stesa sul muretto col caffè in mano e quattro chiacchiere davanti a un casolare. Come nei film di Bertolucci.
Come quelle atmosfere da festival che ti entrano dentro quando sei adolescente e non se ne vanno più. Puoi passare anni a rincorrerle a all’improvviso si dispiegano in un pomeriggio di mezza estate. In cui si decide di fidarsi ancora. Di uscire fuori zona. Nonostante tutto quello che si dice senza pensare e tutto quello che si tace per proteggerlo dalla luce del sole.
Di questo jazz umbro mi ricorderei tutto e lo dipingerei con una pennellata dolce e leggera. Ma se domani volessi riascoltare questa canzone ripenserei a Carmen la lavapiatti, il mio trolley  nascosto nel suo spogliatoio, io che l’aspetto alla fine del turno davanti all’hotel e il nostro gelato tra sconosciute. Riavvolgerei il nastro sugli abbracci del mattino, certe pose allentate sulle sedie e sui divani, la discesa al pozzo etrusco come nel libro di Murakami e una danza tribale, in auto, con le balle di fieno alle spalle.
Ricorderei che voglio vivere così, col bacio in fronte e una comune che gioca a fare le nomination del Grande Fratello.
Ricorderei la promessa di comprare una casa gialla a metà strada.
Dipingerei le stelle della chiesa di San Francesco d’Assisi e mi arrampicherei ancora sulla porta di Santa Chiara.
Disegnerei sul muro la parola amore come fanno i ragazzi del Sud e in una stella cadente mi accorgerei di averla vissuta sì questa parola, ma forse mai davvero pronunciata.
Ma è già Sud. Uah. E la magia si consuma sotto gli ombrelloni di montagna e sopra gli ombrelloni della riva con il mare che si solleva come una tenda di raso color ocra.

Foto Nicola GiulianoColonna sonora: Animale di zona

Matrimonio borbonico

Matrimonio borbonico non significa cafone. Vuol dire piuttosto matrimonio del Sud. Gordo, tronfio, pieno di canzone e di mare. Come nella migliore tradizione partenopea.

La sposa borbonica va all’altare in carrozza perché la semplicità è un concetto sopravvalutato. Il cocchiere, i cavalli bianchi e il traffico di mezzogiorno. I paesani che infilano gli occhi stretti anche nelle crepe dei muri per ammirare e criticare.

Ma la sposa borbonica non se ne fotte.

Si accomoda nei suoi tre metri di tulle e si fa portare, come una baronessa dell’ottocento.

Il prete borbonico, quello dei grandi pulpiti, fa tardi, nel panico generale. Fa caldo e tutti lo danno per morto. E chi la sposa alla sposa borbonica, mò?

Ma il prete arriva e la sposa borbonica raggiunge l’altare a suon di tammorre e nacchere. Essì. Lo voglio. E si sventaglia.

Le foto borboniche si fanno sorseggiando limonata al chiosco della spiaggia. La sposa borbonica, circondata da paggi e damine, si mette in posa giocando col vento e col tulle. Comm’ site bella signurì. Ma fa caldo, spogliatevi, così vi preparate alla prima notte.

Gli invitati borbonici aspettano stoicamente a ristorante con i palloncini bianchi in mano. I musicisti suonano, i cantaores cantano e i bailaores ballano intorno alla sposa e allo sposo borbonico.

Il matrimonio borbonico non conosce silenzi.

Messe cantate, fuochi d’artificio, lanterne, tamburi, canzoni napoletane, concerti moderni, teatro, grasse risate e lacrime di passione.

La sposo borbonico suona mentre la sposa borbonica balla volteggiando tra mille dame che le tengono l’orlo del vestito.

Ecco cos’è il matrimonio borbonico: un lungo girotondo estatico in una nuvola di tulle.

La voglio fa’ ‘na lettera a lu sole
Ch’ a questo ggiorno non calasse maje
E ce lo voglio fa’ lu ggirasole
Bello cantare dove ggir’ e vvaje.

A’ finestra

Sugnu sempri alla finestra e viru genti ca furria pà strada Genti bedda, laria, allegra, mutriusa e siddiata Genti arripudduta cu li gigghia isati e a vucca stritta “Turi ho vogghia di quaccosa, un passabocca, un lemonsoda” Iddu ci arrispunni: “Giusi, quannu ti chiamavi Giuseppina, eri licca pà broscia cà granita” “Turi tu n’ha fattu strada e ora che sei grosso imprenditori t’ha ‘nsignari a classi ‘ntò parrari” Sugnu sempre alla finestra e viru genti spacinnata, sduvacata ‘nte panchini di la piazza, stuta e adduma a sigaretta, gente ca s’ancontra e dici “ciao” cu na taliata, genti ca s’allasca, genti ca s’abbrazza e poi si vasa, genti ca sa fa stringennu a cinghia, si strapazza e non si pinna, annunca st’autru ‘nvernu non si canta missa, genti ca sa fa ‘lliccannu a sadda, ma ci fa truvari a tavula cunsata a cu cumanna Chi ci aviti di taliari, ‘un aviti autru a cui pinsari almeno un pocu di chiffari “Itavinni a travagghiari” vannia ‘n vecchiu indispettitu, “avemu u picciu arreri o vitru”. Jù ci dicu “m’ha scusari, chista è la me casa e staju unni mi pare. La domenica mattina dagli altoparlanti della chiesa a vuci ‘i Patri Coppola n’antrona i casi, trasi dintra l’ossa “piccaturi rinunciati a ddi piccati di la carni quannu u riavulu s’affaccia rafforzatevi a mutanna”. Quannu attagghiu di la chiesa si posteggia un machinone scinni Saro Branchia detto Re Leone Patri Coppola balbetta e ammogghia l’omelia cu tri paroli picchì sua Maestà s’ha fari a comunioni Chi ci aviti di taliari, ‘un aviti autru a cui pinsari almeno un pocu di chiffari “Itavinni un pocu a mari”, vannia un vecchiu tintu “accussì janca mi pariti ‘n spiddu” Jù ci dicu “m’ha scusari, ma picchì hati a stari ccà sutta a me casa pà ‘nsultari”. Sugnu sempri alla finestra e viru a ranni civiltà ca ha statu, unni Turchi, Ebrei e Cristiani si stringeunu la manu, tannu si pinsava ca “La diversità è ricchezza” tempi di biddizza e di puisia, d’amuri e di saggezza Zoccu ha statu aieri, oggi forsi ca putissi riturnari si truvamu semi boni di chiantari ‘Nta sta terra ‘i focu e mari oggi sentu ca mi parra u cori e dici ca li cosi stannu pì canciari Chi ci aviti di taliari ‘un aviti autru a cui pinsari, almeno un poco di chiffari Itavinni a ballari, ittati quattru sauti e nisciti giustu pì sbariari Jù ci dicu “Cù piaciri, c’è qualchi danza streusa ca vuliti cunsigghiari!?”

Anima zingara

E se potessi raccontarti tutta questa vita, tutti gli sguardi, le minigonne, la coca, il profumo sulle t-shirt aderenti,  lo sballo, la musica, quanta musica, le risate. Gli sterei accesi che disperdono nell’aria calda motivi sempre uguali. Le notti che sembrano mezzogiorno, la gente a fiumi, i semafori, la moda, le promozioni, i talloncini delle scarpe, l’afa, l’aria condizionata, la sprite ghiacciata, i chili di sushi, il menu no stop, il caldo, il freddo e il freddo e il caldo. Se io potessi raccontare di balconcini che guardano a Stoccolma, di vere case, di tanti abbracci, del sotto braccio e dell’abbazia di Chiaravalle, di notte, che me ne avevano parlato e non mi ci avevano portato. Fino a un giorno, che è arrivato troppo in fretta, un giorno che da uno scoglio ti trovi tutto un tratto in Europa.  Che dall’onda che ti accarezza i pensieri e lo iodio che ti fa vedere chiaro, impietosamente, crudamente, ma magistralmente, ti trovi nella vita a cui hai detto ciao, con un sorriso triste e la postura fiera. Perché a un certo punto ti devi fermare e devi sapere pure rinunciare al telefono che squilla e come squilla. E se potessi raccontarti, ti racconterei la gente. Pure quella che non ci sta. Racconterei com’è bello stare in hotel in una casa che è stata tua e chiudersi la porta dietro senza una lacrima. Com’è bello, quando ti regalano una possibilità solo per quello che sei stato. Com’è bella una cotoletta fredda a parlare dell’Erasmus. Com’è bello  stare seduti mentre gli amici fanno shopping e farsi le stesse risate. Ma proprio sempre le stesse, sulle stesse cose. Perdersi e ritrovarsi. Ridere. E vedere che qualcuno ce l’ha fatta. Che ha trovato la sua via, perché sai il lavoro è di merda però i colleghi sono carini e io ho ricominciato a vivere, ascoltando la mia anima zingara. Che basta un cenno e la gente arriva e ti vuole proteggere, ti  cucina, ti accompagna e se vuoi andartene da sola, di notte, ti scrive per sapere se sei davvero dentro casa.  E se potessi raccontarti,  queste non sono cose scontate e io non sono pesante. E se avessi davvero le parole per dire come è pieno, come è bello e come sento mio tutto questo, lo scriverei, lo scriverei.

Ironic

E del fallimento delle giornate perfette

Nella mia giornata perfetta il treno salta e devo correre da Sorrento a Napoli come una pazza, con la seicento che sbanda ad ogni curva e mio fratello in preda all’ansia che perdo un’altra volta il treno per Milano.

Tu non ti anticipi mai.

Nella mia giornata perfetta faccio gli scherzi telefonici e Mi Vendo!Un’altra identità, come Renato Zero.

Milano?! Tanto pathos, tanto melodramma e stai di nuovo là.

Mi sembra di aver ritrovato la voglia di giocare nella mia giornata perfetta.

Nella mia giornata perfetta ceno con un gelato alle sei tutta la notte ho i crampi allo stomaco per la fame e i brividi di freddo.

L’avete mai provato il freddo dentro? Il freddo di quando non fa freddo. Il freddo che ti fa arrotolare nella coperta pure se fa caldo.

Nella mia giornata perfetta bevo prosecco a stomaco vuoto.

Mi trucco da zingara nella mia giornata perfetta e mi comporto da algida. Faccio frusciare il vestito e lascio la scia di profumo.

Ma io non sono così.

Io non sono fatta per le giornate perfette. Non esco da un film di Fellini degli anni ‘50, non chiamo il taxi come le ragazze della City.

Io non sono un Che bel fiore!

Nelle giornate perfette indosso la Maschera di Ferro e fuggo più che mai dal calore umano, dalle parole gentili e dagli sguardi languidi. Divento granitica.

E mi odio per questo.

Allora meglio le giornate ironiche, con i pavoni che ti aprono la coda sullo sfondo di un laghetto artificiale e due lacrime che piovono su un colloquio andato al vento.

Qualunque cosa sia accaduta passerà. Mi dice lo sconosciuto al semaforo.

Meglio le giornata ironiche. Almeno sono più vere.

Le giornate ironiche partono già imperfette, non si leggono come segni del destino e congiunture astrali. Non ti sballottano tra due vite che non ne apparano una e non si caricano di aspettativa.

Si vivono e basta. Accadono e basta.

Meglio le giornate ironiche. Almeno sono più vere. Sono più me.

Tu sei molto di più di tutto quello che sta nelle categorie junior e senior, ricordatelo sempre.

Io sono la forza delle mie iperbole. Grazie. Me lo ricorderò.

Napoli solo andata

E di un campeggio durato tre anni e mezzo

Ed eccoci qua, la porta chiusa alle spalle, i lacrimoni come nei meglio film, in tasca un biglietto di sola andata e la sensazione che il campeggio è finito. Si, perché l’ “ultimo” ha lo stesso sapore della vacanza al camping. I saluti, gli abbracci, la promessa di rivedersi e i tanto si sa che tornerai. Perché nessuno ama gli strappi. Piuttosto ci si sfilaccia.

L’ultima lezione di flamenco, l’ultimo tramonto sui tetti con la candela accesa in direzione di Santa Maria dei Navigli, il ricordo di tante tazze sporche e nottate accovacciata su una lavatrice a inventarsi un orizzonte oltre il cemento.

Tante facce ed espressioni negli occhi da mettere a icona per sempre su un divano che è stato anche un letto, un monolocale in cui si sono consumati 3 anni e un mese di scomoda Devozione.

Ciao Milano, odiata e oltremodo amata. Vissuta, pedalata. Bevuta come si desidera l’acqua alla fine di una corsa. Milano che mi ha fatto redattore, managèr e regalato l’adrenalina di una Vita in Diretta. Milano che mi ha mandato in trasferta e tolto la possibilità di ogni viaggio. Milano che mi ha fatto femmina e femminile e mi hai ridotto a guardare le stagioni su una panchina. Milano che ho affascinato tavoli, Milano che non volevo più salire neanche nel tram. Milano della domenica mattina, che ti spiazza nella sua bellezza inafferrabile nel tratto che va da Parco delle Basiliche a piazza Sant’Alessandro. Mille Milano, cascata di rivoli e crocevia di mondi. Milano che mi ha accolta e respinta, abbracciata e schiaffeggiata e mi ha fatto fare la vita che si fa al Nord. Grazie Milano. Di avermi donato qualcosa da raccontare. Milano che ti dà tutto e ti toglie tutto, mi dissero il primo giorno a Milano.

E così fu.

Scivolo via perché non voglio nuotare più come i salmoni, contro corrente. E il flusso interiore mi butta direttamente a mare. Almeno per.

Ma come tutti i cerchi che si chiudono, la geometria è perfetta. Un salto al naviglio in quel locale che ci piace, un concerto in una sera piovosa, quante risate sul lettino delle terme, le incursioni a sorpresa in Via Tortona, il blocco del traffico, il vento che soffia sulle pizze napoletane nelle prime sere d’estate.

Il setting dei saluti finali è sempre un tavolo fuori di una pizzeria napoletana. Chissà perché poi.

http://www.youtube.com/watch?v=Qf4PfhCeCIs

Cartoline andaluse

In Andalusia si va per l’ultima spremuta di limone milanese. Dal Sud non esistono voli a 45€ a/r e quindi o ora o mai più. In Andalusia si mette il cuore oltre l’ostacolo. Si parte scavalcando 14 colli diretti nel Mezzogiorno, il primo vero trasloco della vita da un monolocale con fiocchi di polvere e sentimento.

In Andalusia le ragazze come me si sentono a casa appena mettono il sandalo fuori dal bus. Di sandali ne ho buttati 3 paia in Andalusia, consumandomi  caviglie e duroni, ginocchia e melatonina. Andando todo el dia con uno spagnolo sgangherato, la faccia gonfia di sonno e gli occhi pieni di sorriso. La gioia delle cose che scorrono sui lunghi campi di olivi, senza perchè. Olè.

A Sevilla amicheggio, l’amica prepara la cena vegana al ritorno dall’Alcazar e un materasso a terra incastrato tra la sua stanza e quella di un tipo a cui piace fare all’amore. Non lo ascolto tatuandomi  nel cervello  azuelos,  negozi di scarpe, il panino con jamon iberico, la tostada, la Lonely Planet, amica di tante mattine in giro come le antropologhe americane. Sola. Sola con me.

Sevilla is flamenco che è uno stile di vita, un sentimiento, una cosa che non si può capire, né spiegare, né ballare, né cantare se non stai tutto il giorno a Sevilla. Il compas non si può contare. Sevilla io me la credevo cafona, perché io quando penso alla Spagna mi viene sempre in mente Napoli invece i Sevillani amano Sevilla, la banda, la pista ciclabile, Triana, oh Triana e la sindrome di Stendhal.

Sevilla  la cammino notte e giorno, una rissa, i tassisti ubriachi, abboffarsi di tinto de verano e di un momento da femmine. Uno scambio d’abiti, un gossip, un concerto, una bailaora sexy, le gnoras. Essere femmine non ce lo  nega mai nessuno e arriccio le ciglia a suon di rimmel e aggrotto le sopracciglia di fronte a sto mondo strano di gente internazionale che non si muove se non fa couch surfing.

A Cadiz ho freddo e caldo e imparo a farmi l’autoscatto e perdo tempo così. A farmi le foto nel vento. Mi perdo tra i barrios e mi faccio una tapas di porco sale e limone alla Manteca, in mezzo alle foto dei toreador. Vago, vago vago durante le ore di siesta, cerco il mare tra vicoli sempre più stretti coperti di hibiscus e jacaranda.

Cordoba è lunga, la amo e la odio. Perdiamo il bus della sera con gli occhi già carichi di meraviglie e balconcini perfetti e vasi dipinti a mano e prendiamo quello della mattina ma io non ho più l’età per sciacquarmi i piedi nel lavandino della stazione e reggere le palpebre con gli stuzzicadenti. Nessun turista si è fatto a Cordoba più tapas di noi e quando anche i bar chiudono ce ne andiamo alla Feria a sognare un abito a balze e a volteggiare nel casino e la musica e le lucine e il freddo del mattino. Ho i piedi tagliati dalle ore e dai chilometri e vorrei solo svenire ma nel bus per Sevilla non dormo, penso solo a cosa mettere nello zaino e dopo un’ora sono già in quello per.

Granada a debito di sonno e scoprire un vecchio amico nel mio stesso ostello di quelli che ti offrono e ti fanno sentire coccolata. La pace dell’Alhambra in cui tutto scorre e si rigenera mi sconcerta: le fontane, il roseto, i giardini perfetti, lo scroscio dell’acqua. Ma non mi basta e vado oltre il limite, oltre la coreana con cui ci scattiamo le foto a vicenda. Su una scia mistica salgo a piedi fino all’ultima chiesa del Sacromonte, fino alle cuevas occupate, perché se non mi faccio una chiacchiera con i gitanos, se non sparlo dei giri che vanno lì a vedere i tablao flamenchi con il pacchetto dell’hotel io è come se in Andalusia non ci fossi mai andata. Rischio e mi va bene. E alla fine riesco pure a vedermi uno spettacolo di un bailaor maschio  sudatissimo e con duende.

Dall’Andalusia si torna con tutta la toletta per il matrimonio dell’amica. Borsa e scarpe sapore iberico contemporaneo. E quando nell’ultimo scorcio di Sevilla, di fronte a un paio di orecchini il commesso gay azzarda

forse un pò troppo flamenchi…

E perchè, io non soy una chica andalusa?

30

Delle candeline e delle palle del tenente

30, nella smorfia napoletana, sono le palle del tenente. Si, proprio i testicoli e non sapete quante vote, a Natale, mentre giocavo a tombola, ho avuto davanti agli occhi la brutta immagine delle palle spelacchiate di quest’uomo in divisa.

30 sono i miei anni, festeggiati tre volte da brava ragazza viziata per cui  trentanni sono una data da prendere seriamente.

30 anche se sei cinquanta e cinquanta, la testa al Nord e il corpo a Sud e viceversa, in una spirale che fa girare la testa. Fluttuante, dicono. Il miglior aggettivo dei 30. I miei 30.

A 30 anni mi concedo di preferire il giorno alla notte e restare sempre incantata di fronte alla luna tonda attraversata dalle nuvole nere. Faccio incubi di scenari messianici, io salvatrice, lottatrice contro cani rabbiosi e mi calo uno scialatiello in pineta, in camicia, il fazzoletto al collo, la tavola imbandita e un’orchestra di frutti di mare veraci e frizzanti.

Faccio molti sentieri a 30 anni, salite in mezzo agli ulivi, colline d’asfalto, scalette di tufo stappando una tristezza gracchiante come un cerchione arrugginito e strappando la felicità a un panorama rubato alle crepe di un muro abbandonato.

Tanta roba i 30 anni, a guardare vecchie foto di quando sognavo di averli trent’anni e inseguire un raggio di luce in mezzo all’orizzonte.

Trovarsi a ridere e piangere nello stesso minuto, tra la follia dei venti e il disincanto dei quaranta. Trovarsi tra amici e vecchi compagni, con  bambini che spuntano dalle pance, confessioni tra i binari del treno, prosecchi in terrazza, a fissare la costa e i bei ragazzi che corrono sul lungomare con il pensiero che si appoggia, ma non pensa più a niente.

A 30 anni ti svegli sulla pioggia del mattino e scivoli nell’abbraccio della figlia ribelle che ancora sei sorridendo alla donna che ti accorgi di star inseguendo dentro di te. Da trentanni.

Buon Compleanno

<Gli auguri più belli che abbia mai ricevuto>

Eccoci…27 aprile – toro – cinromantica con stile -nessuno vuole leggere i pate d animo…e arrivano i trenta…desiderati agognati temuti ricacciati indietro fantasticati tante volte cerchiati in stupidi giochini su diari i quaderni o foglietti volanti…
Quest anno vorrei regalarti un sacchetto…un sacchetto di felicità di scorta…xke ahimè pare che i trenta targati 2012 ne abbiano bisogno…piccolo che si possa mimetizzare nascosto in una grossa borsa nella taschina interna durante le giornate che s cavalca l asfalto disperatamente cercando una direzione…una fine come diceva novecento la fine x favore si potrebbe vedere la fine…
Ci voglio mettere dentro un vestito argento come la luna un ricciolo lungo che cade sulle spalle una torta in faccia due vecchie foto scolorite coi vestiti di ciniglia neri e poi con le amiche ad un vecchio compleanno e una col cerotto e una chaise longue pezzata un disegno calcato di più e un paio di doctor martins viola un gaspacho a barcellona un bagno a mezzanotte uno qualunque e poi un pezzetto di neve una birra al cherrie e un biglietto aereo in bianco una telefonata notturna e una chiacchiera in macchina un coinquilino speciale un bacio e uno sguardo orientale such a lovely face such a lovely place un abbraccio in camerino una penna un biglietto d auguri una lacrima sempre un brindisi a capodanno una notte di sesso senza impegno e la prima volta perfetta una circumvesuviana un’onda e una nuotata dove l’acqua è più blu un raggio di sole e un posto al sole una rima una scritta rossa sull eneide una casa nuova che è tua piccola ma tua e un basta ben detto e un tema su colonne e tailleur un foulard nei capelli x il concerto la pastiera e il casatiello un libro un cd una vecchia cassetta e una corona d alloro…e da un lato però lascio dello spazio con su scritto continua tu…
Auguri con tutto il cuore…amica!
sempre qui x te…

B.P.

Inviato da Samsung Mobile

Domenica bestiale

Cronache di un’arrampicatrice sociale (altro che Extreme Makeover)

Chiunque mi conosce un minimo, sa che non sono la tipa da sport estremi. Non so fare neanche il tuffo a pesce e la cosa più extreme che ho fatto è stata salire su una montagna a picco sul mare in sella a un mulo scellerato.

Eppure mi trovo sempre in situazioni a limite delle mie possibilità.

Qualche mese  fa entravo nel magico mondo dello snowboard  milanese accompagnando un’amica a lisciare la tavola e trascorrendo una serata insieme a teen-ager magrolini che si lanciavano da una rampa artificiale ballando hip hop in un negozio con gli abiti fluo.

Ieri, invece, è stata la volta dell’arrampicata: un gruppo di maschioni scolpiti e nudi in sfida con le rocce della falesia di Atena Lucana, un comune salernitano dimenticato dal Gps.

Bloccata nella montagna, come un rinvio al chiodo, in mezzo ai fanatici dell’altezza e non potendo scrivere il sequel de Le mie prigioni ho pensato così di occupare il tempo:

Rifarmi gli occhi con culetti sodi e carnagioni abbronzate

Declinare l’invito a sfidare “la parete” dell’arrampicatore carino con la scusa delle tips unghie

Leggere tutto Mosca più balena di Valeria Parrella con uno stelo d’erba in bocca ostentando nonchalance (tappeto musicale: urla tribali degli scalatori appesi alle corde  alle prese con passaggi cruciali)

Concedermi un tour delle chiese di Atena Lucana insieme al sacrestano e a una coppia in soggiorno Lets Bonus

Degustare un caffè nell’unico hotel del paese con vista sul Vallo di Diano

Aspettare la cena, 10€ antipasto, due primi, un secondo, dolce, bevande inclusive e salvarmi alla fine con un rocambolesco racconto dell’Erasmus a Helsinki, almeno come arrampicatrice sociale.