Moto

Accellero anche se non so guidare

E dopo tanti sogni violenti con angeli e mostri  ecco di nuovo quel moto che parte dallo stomaco e dal cuore. Il mare mi abbraccia sospesa tra nord e sud e non sono sola. Non sono sola anche se non so cosa il destino vuole da me e io da lui. E io da me. I pensieri combattono e le chiacchiere si fanno sul lettino traballante della stanzetta della giovinezza. E’ tutto cambiato ma nulla lo è. Sotto gli occhi le occhiaie, nel cielo le stelle e nell’anima sentirsi sempre a metà. Fluttuante. Come quell’onda che fugge, come il Vesuvio ai margini dell’autostrada o incastonato tra i balconi e Ischia chiara chiara nelle mattine di umidità. Sul cuore mettiamo la stessa toppa che ho messo sui jeans, sempre gli stessi, per quindici giorni, la toppa sull’interno coscia e sul battito cieco e impaurito. La vita non è un incastro di chi fa cosa ma una canzone, un gioco di parole, una vicinanza lontana e una lontananza vicina. Finalmente mi sciolgo, ma solo alla fine e mi ritrovo un po’. Ci è voluto più tempo stavolta. Più della foto della primavera, della danza di geisha, dei tuoi occhi di ghiaccio a chi ti dice brava, di una passeggiata a Via Caracciolo con le scelte che seguono le barche che sfidano il vento, delle lacrime nel corridoio e del tuo sguardo riconoscente e sognatore, del vostro ascolto, della tua tacita presenza, di una chiesetta che si apre all’improvviso tra le fiaccole e i palazzi puliti, delle passeggiate al mare attraversando le nostre vite, di tutte le cose che non ho detto perché voglio tenerle per me, degli incontri futuri e delle canzoni tristi, di vorrei che davvero tu in Australia avessi una buona pasqua, delle telefonate last minute, in cui abbiamo riso di come è logorante essere come siamo, di tante manovre sbagliate perché non so guidare.

Stavolta c’è voluto davvero tanto e temevo di non farcela, ma finalmente mi sciolgo ed ecco quel moto che sale dal cuore ed è pienamente me, eccolo.

Good As You

Quando GAY oltre che felice è pure divertente

A tutti è successo almeno una volta nella vita di trascorrere un capodanno tra sconosciuti. O di imbucarsi a una festa di amici di amici di amici. O guardare l’alba in spiaggia dopo i bagordi a scambiarsi considerazioni improbabili mentre il mascara cola e la nausea si aggrappa allo stomaco.

 Sentimentalmente sono le situazioni più fertili, in cui può accadere davvero di tutto. Ci si innamora, ci si lascia, si diventa amici, si litiga via sms, o ci si emoziona, solamente. Il brivido dell’attesa, lo strappo di un addio, l’impeto della vita.

Ecco, il film di Mariano Lamberti “Good As You”, acronimo di GAY, in anteprima mercoledì 21 marzo al cinema Apollo di Milano, racconta tutto questo, calandolo nel mondo omosessuale. I protagonisti, infatti, sono otto gay e lesbiche alle prese con la ricerca dell’amore. Un amore che è chimera, amicizia mascherata, sempre carnale, ossessivo, intricato.

 Ma quale amore non lo è.

Noi dovemoce solo divertì, no?! Noi si esce da una favola, non è vero?

Dice Mara (Elisa Di Eusanio), il “masculone” della compagnia, all’ ex fidanzata che si riscopre etero, riferendosi allo stereotipo che gli etero hanno del mondo omosessuale. Un mondo colorato, superficiale, il mondo di una botta e via.

 Certo il primo che attinge ai clichè del mondo gay è il film stesso, pieno di doppi sensi, battute al vetriolo, sketch divertenti. Ci sono le love story nate in chat, i travestimenti, il poster di Madonna, il botox, la Mucca Assassina, la voce delle sorelle Kessler, i corpi di marmo dentro le saune, i gay camuffati, i trans, i bisex, le checche, i sieropositivi. C’è il gay pride e l’inseminazione artificiale.

 (C’è Luca Dorigo, che avevamo lasciato sul trono di Uomini e Donne che si cimenta in un improbabile spagnolo da cui proprio non riesce a estirpare la cadenza veneta).

Film divertente, quando non ricorda troppo il gruppo di amici di Ma che Colpa Abbiamo noi di Carlo Verdone ed è molto più rinfrancante di una bella commedia americana. Le gioie e i dolori della famiglia gay allargata le avevamo già viste nelle Fate Ignoranti e in Saturno Contro di Ozpetek, ma la comicità romana che inchioda e attinge davvero dal mondo gay, merita una visita di tutti.

Ufficio Stampa: REGGI&SPIZZICHINO Communication

@La Scala

Esperienze eccezionali in tempi di crisi

Andare a vedere uno spettacolo alla Scala di Milano era una di quelle cose che volevo fare nella vita. Il problema è che non avrei mai speso 200€ per andare a sentirmi Le Nozze di Figaro di Mozart. Non per Mozart, ma proprio perché non fa parte della mia filosofia di vita, come la Louis Vuitton, per capirci.

 Alla fine ci sono andata. Gratis.

Col cappotto buono della laurea e una mise non troppo elegante perché ci entravo col biglietto della consulta dei lavoratori per giovani precari.

 Eggià, pure a fare il precario ci vuole stoffa.

 Fatto sta che appena ho letto la notizia su un newsletter che in genere cestino, ho scritto al sindacato una mail strappalacrime e neanche troppo falsa sul mio stadio in-occupazionale e il mio sogno di entrare alla Scala. Anche se la cosa mi metteva un po’ ansia perché l’opera non l’avevo mai vista e neanche uno spettacolo di 3.45h, roba che i polpettoni di Clint Eastwood sono un cartone animato a confronto.

Comunque dicevo che mi sono risparmiata la collana di perle perché non volevo sembrare agli atri precari Miss Disoccupazione, ma comunque mi sono difesa con un vestito a palloncino che è sempre troppo elegante per una semplice serata tra amici.

 E ho fatto bene, perché ci hanno destinato l’ante prova generale insieme agli studenti delle scuole medie. Cioè in parole povere la prova precedente alla prova generale senza luci e con l’orchestra della Scala ridotta e che può permettersi pure uno sbadiglio ogni tanto. E soprattutto, le maschere della Scala con il medaglione d’oro al collo non ci hanno chiuso a chiave dentro il palchetto, cosa che alla prima si fa per etichetta, roba da sfiorare un attacco di panico. Però Giorgio Strelher era seduto lì, nel palchetto più vicino al palco.

Il risultato di tutto ciò è stato che ora li spenderei i 200€ per vedere le Nozze di Figaro di Mozart. E se li meritano tutti i 200€ gli attori, i musicisti e tutta la banda. Ma voi avete capito farsi quattro ore di sgolata con una presenza scenica impeccabile e gli abiti così fruscianti e sontuosi da sembrare davvero il settecento?

 E poi se la storia non la capisci proprio tutta, basta chiudere gli occhi e sentire i violini e volare sempre più in alto, sollevati dal braccio di qualcosa che senti, ma non capisci. Qualcosa che ha il potere di farti sentire leggero. Qualcosa che altrove accade solo nel sogno.

Come cenare alle 17.30. Se no come ci arrivi alle undici.

 

Non solo Amici

La scoperta di Scala e Kolacny Brothers

Non vado particolarmente matta per i cori. Faccio eccezione per Sister Act e le voci bianche della processione del venerdì santo. Non ho mai pagato per un musical e l’unico film da cui mi sia mai alzata a metà è stato Moulin Rouge. Certo, a quattordici anni un mio amico mi ha fatto fare la corista e con Adb mi divertivo a improvvisare controcanti sgangherati e distorti, ma sono cose della giovinezza, come imitare Ambra Angiolini davanti allo specchio batte forte il cuore primo piano in ascensore.

Non vado particolarmente matta per i cori, dicevo, ma non conoscevo Scala & Kolacny Brothers.

Immaginatevi quattordici ragazze belghe che cantano tutti i successi della musica rock internazionale con le voci d’angelo. Quattordici ragazze alte, faccia pulita, culo grosso, abiti neri a sacco, nulla di quella impostazione di Amici di Maria de Filippi, occhi negli occhi, sguardo contro sguardo.

Ma con le voci d’angelo che quando hanno fatto And you give yourself away di With or Without you e Sere Nere di Tiziano Ferro con la erre tedesca appena sussurrata e soffiata io vi giuro che mi si è accapponata la pelle nonostante i chili di Nivea alle mandorle per pelli secche.

Io penso che per fare dei cori così, i cori li devi fare di mestiere e non le puoi schifare troppo le altre del gruppo. Penso che un coro sia davvero una cosa psicologica perché io per quanto mi sforzassi di guardarle in bocca a una ad una non capivo chi faceva gli alti chi i bassi chi gli acuti e chi i gravi.

Menomale che il direttore d’orchestra con camicia rossa da teatrino londinese mi distoglieva con i suoi movimenti acchiappamosche dai miei ragionamenti sul ruolo della corista in un coro.

Me le immagino queste ragazze belghe che escono dalle loro case piatte con il cielo grigio, la bici, le aiuole curate e la vicina bambina che gioca nel giardinetti verdi. Me le vedo fare le prove con le All Star consumate e la felpa col cappuccio, comunicare a maman e vicini col coro facciamo due date in Italia, un piquet alla violetta in una mano e un toast al burro e granella di cioccolata nell’altra.

Tra le note setose aleggiano i ricordi del mio viaggio in Belgio, diabolico assai, come que viaggi fatti per dimenticare qualcuno, però ho visto in quella compostezza, il ritratto di Liege della mia amica Aline con le scarpe da tap sul vialetto di casa, prima di andare a scuola.

Nel nome dei Padri

e delle love stories  nate dal cilindro metropolitano

Stasera guardavo dopo tanto tempo Un posto al Sole, fiction per la quale – con immenso onore – ho lavorato. Speravo che la puntata fosse stata sceneggiata da una mia ex collega, Brunella Voto, ma poi ho dimenticato di guardare i titoli di coda perché mi sono assorta in.

La riflessione della sera è: quanto avremmo più bisogno dei padri di un tempo.

Mi spiego: Raffaele (Patrizio Rispo) consigliava accorato ad Andrea, l’ex della figlia Viola, di confessarle i suoi sentimenti se sentiva che erano gli stessi di un tempo nonostante le relazioni di entrambi.

Ma quanti sono i padri oggi che parlano con gli ex fidanzati o con i fidanzati stessi?

Mio padre che è un padre presente ha conosciuto solo uno dei miei ragazzi e ha vissuto gli altri (pochi) importanti solo dai miei (vaghi) racconti o dalle telefonate rubate a mia madre ora che viviamo a 800km di distanza e 4h e 10 min di Frecciarossa.

 Il bello delle storie d’amore vissute in città è fare quell’incontro nella miriade di migliaia di possibilità di incontri. Ma il brutto delle storie di città è quello di nascere senza riferimenti. Mi rendo conto solo stasera che ho solo due numeri di telefono di amici del mio ex.

Senza inneggiare ai matrimoni combinati, mi affascina l’idea degli amori nati in paese anni fa in cui si chiedevano informazioni e con due parole si sapeva vita morte e miracoli di lui e della sua famiglia.

Mi piace l’idea dell’incontro tra le famiglie e delle paste della domenica.

Mi piace l’austerità dei rapporti di un tempo e della risposta delle mie nonne, entrambe vedove, sempre la stessa, assertiva e coraggiosa:  unico Dio unico uomo, ci voleva un coraggio a mettere tre figlie femmine adolescenti davanti a uno sconosciuto.

Uno sconosciuto, appunto.

Scegliere da soli il proprio partner è una gran conquista e senza i padri di un tempo ogni scelta è revocabile e non si rischia di restare nella trappola di un matrimonio sbagliato o violento o cosa.

 Ma senza i padri di un tempo e la loro fitta rete di informazioni, ti butti nelle storie di città senza protezione e quando la storia finisce non puoi che sorridere se il padre di oggi ti dice non posso giudicare perché non lo conosco (mio padre no, ma lui è un padre di un tempo che ha imparato a fare il moderno.)

Il fatto di J.

Se avete due minuti da perdere sulle storie di ordinaria emigrazione occupazionale,  qui c’è un accenno anche alla mia.

Se  avete due ora da perdere e la cosa vi interessi un chicco, invece, commentate (sempre che vi riesca). Io sono stata moderata dal moderatore perchè mi sono permessa di fare “uno shampoo” a un tizio che insinua che il precariato è una manfrina da ricchi.

 

Santo sia Valentino!

Storia di due cornetti mai sfor|nati

Se ieri mattina il mio ragazzo mi avesse svegliato con due croissant caldi di forno sussurrando: buon San Valentino amore, allora forse non sarei dovuta ricorrere a tutta la potenza di Milano quando ti metti in testa “stasera voglio davvero fare qualcosa, esco”.

Perché io di questa città dico peste e corna, ma quando vuoi fare davvero qualcosa e ti impegni a stare sul pezzo per le 18.45, allora devo ammetterlo, Milano è proprio una città imbattibile e può regalarti grandi soddisfazioni.

STEP 1 – HAPPY HOUR WITH LOVE

Ancora una coda di saldi e via con l’aperitivo. La panetteria adibita a,non ci va, ci lanciamo su un localino spagnoleggiante con buffet modesto ma ambiente relax. Io e la mia amica finiamo in un tavolo da quattro con una simpatica coppia in cui lei ha portato una rosa a lui e lui a lei niente (è proprio vero che i tempi sono cambiati). All’idea di dividere il tavolo con una non-coppia o coppia lesbica, i due si fanno una gran risata e lei si limita solo a dire: questo San Valentino è iniziato proprio strano. Olè! Vamonos! Salute companeros!

STEP 2- PIT STOP AL BAR PICCHIO

Decidiamo di fare un saluto a Carmen, la simpatica coetanea, precaria, ex praticante, figlia dei gestori del Bar Picchio di Via Melzo, una tabaccheria che fa anche l’aperitivo, un posto che si è fermato nell’arredamento agli anni ’60 e dove vigono solo due regole: disordine e simpatia. Carmen ci offre una mozzarella in carrozza appena sfornata da mammà anche se non volete consumare e ci mostra orgogliosa le recensioni sul locale mentre il papà rovescia le patatine sulle schedine del fantacalcio. Felix il fratello fa il faraone tra le coppie radical che hanno deciso di festeggiare Valentino con uno sprits+ pasta al sugo a 3 euro  e gli avventori si susseguono caoticamente al bancone per ordinare due gocce di flemma decadente: (Carmen) vi chiedo di pagare prima se no ci dimentichiamo!

IT’S THE FINAL COUNTDOWN- PALAZZO PIRELLI

E vuoi che ci facevamo sfuggire la possibilità offerta dal comune di Milano di salire GRATIS per San Valentino sulla terrazzo di Palazzo Pirelli? Eccoci al 39esimo piano, non senza qualche vertigine e ansia da speedy ascensore, ad ammirare il panorama postmoderno di Milano imbiancata, dalla stessa altezza di Oh mia bella Madunina. Le coppie limonano e il piano bar canta, ma io mi sento proprio realizzata di fronte alle lucine, le geometrie dei palazzi e le guglie in lontananza. E’ mezzanotte, mi sento realizzata di fronte alle pareti a specchio e non sono a Berlino.

Menomale che quei cornetti non sono mai arrivati.

Il coinquilino

Storia di una convivenza extra ordinaria

Di coinquilini nella mia vita ne ho avuti 9. Sei tutti in una botta, quando ero una ragazza internazionale che viveva in uno studentato di Helsinki. Poi mi sono fatta due mesi a scrocco da una chicchissima aristocratica napoletana e poi tre mesi a pagamento con due studentesse che quando tornavano da ballare, io mi alzavo per andare a lavoro da un divano letto che si apriva in mezzo, prima di approdare, come Cast Away, qui.

Poi, è arrivato lui, il coinquilino.

Bello, occhio tagliato, mediterraneo. Quello che con una parola odiosa si definirebbe: solare. Una lampada ogni tanto, la bici da città, il gonfiatore, il pallone da basket. Tutte suppellettili accumulate in tre giorni, il tempo che un monolocale di 33 m2 si trasformi in uno stanzone da 15, full of Reyban multicolor, cuffie giganti, aggeggi tecnologici e ovviamente uno stendino open air di quelli che usano negli show room.

Non è giusto! Dovrebbe darti  una scifra simbolicà!– sbotta la mia collega francese in pausa pranzo, davanti a quei piatti finto orientali che a Milano abbuffano di dado Star.

Già. Ho trascurato un piccolo dettaglio: il coinquilino è a scrocco!

Io bonariamente lo chiamo avvoltoio, così, ogni tanto, per non far vedere che sono totalmente alla sua mercè. Lui allora, preso da uno sbiadito senso di colpa, porta su una cassa d’acqua e mi prepara il caccaviello per la pausa pranzo, quando decido che la francese e le mamme in generale mi mettono ansia e mi ritiro nel mio ramadan solitario tra i barboni di Parco Sempione.

Il coinquilino si accaparra il mio letto che da matrimoniale diventa singolo, ascolta la musica a tutte le ore, fa due docce al giorno con getto d’acqua caldissima e io pago, usa il pc di notte, o meglio, vorrebbe se un mio diktat non avesse imposto lo spegnimento di tutte le luci e la sospensione di tutti i rumori a mezzanotte.

Il coinquilino però è uno di quelli a cui non puoi dire di no. Ride se ti incazzi, ti abbraccia se urli e ti riempie di pizzicotti mentre cucini. E’ uno di quelli con cui, torto o ragione, passerai sempre per l’isterica della situazione e lui per il light, fresco, giovane, io guardo la vita con ottimismo sei tu ad essere pesante. Che un po’ è pure vero.

Ieri con il coinquilino ci siamo scolati una bottiglia di vino guardandoci negli occhi e parlando dei massimi sistemi ed io ero come al solito rapita della sua filosofia di vita, per così dire, essenziale. Gli ho dato le ultime due valige perché ora viene da me solo un weekend ogni tanto e sentendo il rumore metallico dell’ascensore che si allontanava ho capito che può darsi che io non sappia cosa dico, scegliendo te – un fratello– per amico.

Seanight

Mi sono innamorato di Marina…

Stanotte so esattamente dove vorrei stare.

a) Nella casa sullo scoglio che si trova su una spiaggetta sperduta di Positano (Laurito) a cui puoi arrivare solo a piedi

b) Sul terrazzino della casa che affaccia a mare nel minuscolo porto di Rio Maggiore alle Cinqueterre, a pochi passi da dove è successa l’alluvione

c) In un cubotto bianco che affaccia sulla Caldera nella Santorini di fine aprile, possibilmente lato Thyrasia

d) Sul sagrato di Aci Castello, Sicily

Ogni alternativa è ugualmente valida.

Stanotte vorrei sentire le onde che sbattono contro gli scogli, la superficie dell’acqua che si arriccia poco o assai a seconda delle maree, lo sciabordio della schiuma, schhhhh, che si espande e si restringe, che risacca.

Stanotte sarebbe una di quelle notti che mi piacerebbe contemplare il mare, il pensiero libero di fuggire, una felpa col cappuccio, i granelli di sabbia nelle scarpe, un’ occhiata all’orizzonte scuro e uno alle stelle.

Australia

Voglio andare a vivere in campagna. Ah ah- ah ah.

 Quando Ross, quella della stanza di Ross, decise di mollare fidanzato e lavoro e andarsene in Australia a tosare le pecore merinos, restai senza parole.

 Non che condannassi la sua scelta, attenzione. Solo che non capivo perché andare a cercare la propria strada a 22 ore di volo da qui.

 Ross mi disse che era stanca. Stanca dell’ennesimo non rinnovo, stanca del precariato, stanca di sbattersi tutto il giorno tra le strade di Roma con la macchina aziendale, esaurita, sfatta, stressata, sfiancata.

Non vedo Ross da enne mesi. Ho visto però una sua foto su facebook nelle vacanze di natale. Ha un colorito mulatto sano che contrasta splendidamente con i suoi occhi verdi. Salta su dune di sabbia bianca in micro bikini e tenta di restare in equilibrio su barili di vino in tenuta campestre. Sorride Ross e anche se è solo una foto io vedo che i suoi occhi ridono davvero.

E allora ESAUSTA di sentir parlare ogni giorno di

Milan, tagliandi dell’ecopass, previsioni per il prossimo weekend, prenotazioni (il pane dal panettiere, le catene, il pieno di benzina in caso di sciopero, lo spettacolo tra tre mesi, le vacanze estive…di gia?!?) dico a Ross di tosare tutte le pecore dell’Australia rurale e pure della Nuova Zelanda.

 Mi senti Roooss?

Perché io, cara Ross, non vedo l’ora di essere di nuovo disoccupata per sdoganarmi dagli incastri rocamboleschi che vedo ogni giorno, dove tra un cliente di lavoro, cento telefonate, la Champions, una scopata fuori mano (ma sempre connessa all’ufficio), bisogna infilare per forza una lampada. Per forza.