The Machine

Apologia di Isabella Summers e di tutti quelli che arrivano secondi.

Jem e le Misfits

 

Sarà un gene crocerossino dominante, ma fin da piccola, sono sempre stata affascinata dai personaggi minori, gli alter ego, i secondi, le cosiddette “spalle”.

Quando guardavo Beverly Hills, tutte andavano per Brenda o Kelly. A me piaceva Donna, bruttina ma con una personalità da fashion victim irresistibile (finchè non ho scoperto che era la figlia del produttore Aron Spelling nonchè tutta rifatta).

E così via.

Ho sempre preferito Lisa a Renzi la Strega, Madame Butterfly a Jenni la Tennista, Martin Gore a Dave Gahan, le Misfits a Jem e le Hologram.

Ho difeso strenuamente la senape contro la maionese e il ketchup, il Chinotto contro Coca e Pepsi  e ho rivendicato più volte la dignità della cioccolata bigusto al cospetto di sua Maestà La Nutella (sono due cose così diverse!).

Ebbene, tutto questo per dire che ieri, al concerto di  Florence and the Machine, io non ho potuto distogliere gli occhi dalla “macchina”, The Machine,  Isabella Summers

Florence è pancia, è forza vitale,  voce di è eco cavernoso, sacerdotessa hippy del tempio di Stonehenge, ma in pallore e magrezza sempre più ricercata.

Florence è circense, look evocativo, quasi artefatta.

Isabella, è sobria, concentrata, sciatta nel suo vestito di pizzo e nel toupè improvvisato, accenna un sorriso e dà spazio a Florence senza alzare la testa dai tasti neanche quando l’amica frontwoman fa per accompagnarla.

Isabella è la macchina, è la basa su cui Florence poggia il suo arzigogolio and it works.

Eccome se funziona.

Luglio

Le palle sulle scoglio non ce le sbatto più. Agliagliagliai.

E poi all’improvviso decido di prendere quel treno sulla stanchezza e di affrontare tutto quel panico nella pancia – tanto da sms l’amico che di mestiere fa lo psicologo – per essere di nuovo io e uscire dal quel Medioevo di mediocrità e di torpore. Quel Medioevo senza sorrisi e brio in cui non so come sono finita, eppure.

Io nella folata di vento che accarezza le tonde colline marchigiane. Le sinuosità della terra mi ipnotizzano attraverso i finestrini del treno. Io al tramonto, a guardare le pale eoliche che girano, dondolandoci nei disordini alimentari, noi amiche improvvisate di una famiglia allargata.

Una lunga giornata bruciata dal sole.

Io agave, io aloe, io buganvillea, le palme sul lungomare di un bagno in Liguria sgangherato. Ciuffi di pini che cadono a mare, la ghiaia, la salsedine, il caldo, il cammino, l’aria condizionata, il parcheggio, la spalla incriccata, il tempo che scorre senza sapere perché ci si trova lì e con chi.

Chiedi. E ti sarà dato.

Io che corro nei campi tra le insegne del Parmigiano Regiano. La terra secca e il sole che picchia, il vino che suda, le spighe di grano, la strada si perde.

Il gusto di arrivare in ritardo e non chiedere scusa.

Io a esultare per un goal della Spagna, per quattro risate, risate, risate,a sorpresa, risate sepolte e dimenticate.

El duende.

Io, regia, con quelle dannate cuffie intorno al collo…

Il cameratismo notturno non è poi così male.

Piglia e porta a casa

La filosofi degli 82 dei 28 anni

I 28 si soffiano su una candelina improvvisata in una festicciola American style con faccia bianca immortalata anche in una polaroid dell’indiano.

C’ è qualche amico di Milano, gli amici di Napoli stanno a Roma, a Treviso, a Trento, a Granada.

Stanno a Napoli.

E da Helsinki e Berlino ti scrivono sagome di un tempo che fu, quando tramonta il sole, quando inizi a decomprimere e concederti il lusso di guardare i tetti tra le antenne e nidi delle cornacchie.

Il lusso di dire: ma allora è il mio compleanno, mi dovrei rilassare. Mi dovrei festeggiare.

La filosofia dei 28 è strana, ineludibile:  è la filosofia del piglia e porta a casa.

La filosofia del piglia e porta a casa richiede la spinta sull’acceleratore anche se hai finito la benzina da un bel po’.  (D’altronde per far sì che nessuno mettesse Baby nell’angolo c’ è voluto un gran dispendio di energie).

E allora, se la corda si è rotta ma tu sei funambola, se vivi ogni giorno a riserva, ma ti nutri  della tua adrenalina,  come il verme solitario di stessa, piglia e porta a casa.

Piglia e porta a casa tutto quello che di buono la giornata ti offre. E se proprio non ti offre nulla, piglia e porta a casa lo stesso, col sorriso delle ballerine di nuoto sincronizzato.

Il piglia e porta a casa richiede una buona dose di arroganza e una gran faccia di culo darwiniana, che se non ce l’hai, la impari.

Il piglia e porta a casa ti fa sentire ad un tempo una bambina di  8 anni e una vecchia di 82.

Ma è l’unico modo per continuare a festeggiare i 28 tra un giro pizza e le sala da tè.

(Paese che non ha più campanelli).

Pasqua

Cronache di un post in differita

La pasqua come sarebbe stata, sarebbe stata profumata.

Mia madre stanca ma felice, il salotto pieno di casatiello dolcessalato,  uova di San Pietroburgo, uova decorate, uova di pasqua, ovette di cioccolato, la benedizione di mio padre con  il ramo d’ olivo a mezzogiorno, il via vai dei vicini, un caffè di fratellanza. No nonna, la pastiera no, grazie. E vabbè se è come la fai tu faccio un’eccezione. Sarebbe stata soleggiata.

Io avrei guardato il mare e gli amici e mi sarei isolata mezz’ora nella nostalgia, scattando un clic del momento, da incidere nel cuore per il tempo che verrà.

La pasqua com’è stata è stata bagnata, zero tradition, but full. Piena.

Cercare la pasqua nella pioggia incessante e trovare verde, comunque.

Camminare  comunque e bagnarsi comunque alla faccia di quelli che controllano sempre il meteo e preferiscono Giuliacci al cuore.

Incenso e pensieri da svenire, comunque. Stanchezza tanta.

Non c’è l’agnello, ma c’è il brunch con la musica di Rino Gaetano, l’extra comunitario che mangia da solo, ci sono puntini puntini puntini, strisce, nature morte futuriste, c’è la follia colorata e narcotica di Roy Lichtstein che disinibisce lentamente, come quel Jack e Coca che non bevi da tempo.

C’è sempre grigio , c’è un tè, un caffè, un limoncello, un uovo di cioccolato, una luce relax e un giorno di pioggia Andrea e Giuliano incontrano Licia per caso.

C’è un punto, un punto ora,  in cui la pasqua come sarebbe stata e la pasqua com’è si incontrano dentro di te.

Un punto attaccato alla tela con un Plettro Fender preciso come la goccia d’acqua che cade nella Darsena.

Scritto tra il 4 e il 5 aprile e pubblicato un mese dopo. Ma come dice Madonna,  please don’t say you’re sorry.

La Carla

Quando una rosa vale più del Pinguino

La Carla ha settant’anni, è la mia padrona di casa e ogni tanto mi riceve in kimono.

E’ stata la prima traduttrice italiana di non so quale scrittrice inglese, cosa di cui va molto fiera e che mi ripete ogni volta che vado a pagare l’affitto.

Ma le interazioni tra me e La Carla, per quanto rade, non si esauriscono in un assegno mensile.

La Carla mi scrive. E abita nella scala affianco.

Mi scrive lettere e sms per dirmi che non è in casa. “Siamo+ al+ mare+saluti+carla.” La Carla ha un problema la funzione spazio del cellulare, nonostante in una session d’affitto le abbia mostrato più e più volte che non deve premere + ma 0. Nulla da fare. E’ troppo presa dalle sue piante, dalla collezione di cavallucci a dondolo, dal decoupage, dalle canzoni di John Lennon che lei ciclicamente stampa e attacca sulla porta d’ingresso, lato esterno, che tutti possano vedere.

E soprattutto, è troppo presa a raccontarmi dell’ansia e agliagliai, quanto fa male la ferita in petto, non guarisce, i medici sono stati bravi, ma con questo lungo inverno a Milano, poi, figuriamoci.

La Carla mi regala. Regali sul pianerottolo, che trovo così, all’improvviso, come l’arcobaleno dopo la pioggia, come una strana sostanza di cui l’emigrante ha ricordo e che dovrebbe chiamarsi qualcosa come calore umano.

Regali alla Carla, per intenderci. Candele e fiammiferi se manca la luce, servizi di piatti spaiati, presine fiorate e un memorabile maglione xxl con cuori scozzesi, perle e papere che ha dato il via ad un lungo e tacito scambio reciproco di regali riciclati.

La Carla lascia davanti alla mia porta le rose d’inverno e le mimose a primavera, anzi il 15 marzo e sul biglietto rilancia “ Cara A. un po’ in ritardo dopo l’8 marzo!! Auguri!! Ciao Carla”,

La Carla mi accompagna sempre all’ascensore e sembra che mi vuole bene, ma se le chiedo di comprarmi il condizionatore perché sul tetto d’estate ci sono 50 gradi, la Carla nicchia.

“Non trovi che Immagine sia la canzone più bella del mondo? Io sono atea, ma a Lennon ci credo”.

Le regole

In un momento difficile, un’ aspirante ragazza felice deve darsi delle regole. Regole ferree.

vasca

  1. Alzarsi mezz’ora prima al mattino e prendersi cura del proprio aspetto. Assolutamente da evitare il make up in tram e il ritocco allo smalto smangiucchiato 5 min prima di uscire.

  2. Imporsi di rifare il letto, se si vive in un monolocale. Se si mangia dove si dorme, il letto disfatto col calzino che fa capolino costituisce un grave limite alla socialità serale.

  3. Imbottirsi di energizzanti naturali come polline, caffè, tè verde per combattere l’effetto mattutino “mi ha investito un tir”.

  4. Spegnere il cervello almeno quando si dorme. Banditi tutti i sogni psichedelici, complicati, stratificati. Il pericolo è cominciare la giornata con la faccia bianca da “post versione di greco”.

  5. Pianificare acquisti inutili, concedersi cioccolato, accendere una candela mentre si fa la doccia col proprio bagnoschiuma preferito.

  6. Rilassarsi con lunghe session musicali.

  7. Non perdere gli appuntamenti con la vita anche quando l’idea di un’ora di coda all’ Esselunga ti crea la nausea, quando inizi la lezione di pilates con 15 minuti di ritardo, quando il tram si blocca prima dell’appuntamento. Tu che vorresti tutto perfetto.

  8. Corollario 1: quando ti fai vincere dall’indolenza, sarai sempre tu a rimetterci. ( Pile di piatti si accumuleranno sul lavello, montagne di abiti straborderanno dalla lavatrice, il frigo sarà sempre più vuoto, la casa sempre più sporca e il collo sempre più incordato).

  9. Corollario 2: Inspira, respira, vola alto, fai training autogeno, fai uno spogliarello,  fai qualsiasi cosa induca autocontrollo prima di sfanculare il mondo. Anche qui, superata la fase legittimo sfogo, farai i conti con l’ortolano

  10. Corollario 3 e superregola massima: Nessuno può mettere baby nell’angolo. Never.

O' scarrafone?

Mamma son tanto felice…Ma i figli lo sono altrettanto?

Premesso che non voglio offendere nessuna, compresa me stessa che a 27 anni sono lontanissima da ogni prospettiva definitiva, una donna deve fare un figlio. O almeno provarci, o quantomeno pensarci.

Poi lascia stare che il contratto a tempo indeterminato non arriva, i soldi mancano, i tuoi abitano in un’altra nazione, il tuo lui risulta positivo al test d’infertilità, o peggio, non c’è proprio un lui che ti voglia caricare per il resto dei suoi giorni, una deve quantomeno pensarci.

Ebbene, postami il problema quando non rifaccio il letto la mattina, quando crollo dal mal di testa, quando mi viene la forfora da stress, quando non riesco a togliermi lo smalto, quando vedo i film già inziati perchè devo cucinare, quando al supermercato mi gira tutto, insomma, quando non riesco a pensare nemmeno a me stessa- Merin, noto che comunque per me un figlio non è un pensiero- problema, ma un pensiero felice, associabile a mare, le marionette di Ikea, favole, disegnare, gite della domenica. Almeno idealmente.

Perchè allora ieri e l’altroieri due mamme sbraitavano contro le figlie?

Figlia A: 9anni circa, saltella sul marciapiede.

Iena A: Devi smetterla si prendere la vita come un gioco, cammina dritta, basta!

Figlia B: 12 anni su e giù, in tram colpevole di non si sa cosa.

Iena B: tutti devono sapere quanto sei scostumata e ora faccia al muro!

Ma cosa avranno mai fatto di tanto grave queste bambine?

Perchè incanalarle in uno schema così rigido?

Poi da Santoro si meravigliano come mai a 14 anni si senta già l’esigenza di un acido e si conoscano le droghe come le tabelline. Se noi figlie di mamme non ansiose siamo soggette a micro attacchi d’ansia, cosa succederà a queste figlie del Totalitarismo delle emozioni?

Vicoe

Weekend di ordinaria follia

E sentire il profumo del pino sul selciato bagnato, il freddo umido senza termosifone, il mare d’inverno, un vero angolo cottura.
E stare accoccolati nel letto e risate a squarciagola, caffè su caffè dai capelli bianchi, chiacchiere nel treno, battute superflue di donne legnose che Almodovar dovrebbe fare un casting al più presto.
E il vacuum sostenibile, Internet free, chi viene e chi va, vicini di casa, vociare dormiente.
E riflessioni do o’ scan, che non è skunk, l’aria condizionata d’inverno, le marmellate di casa, il sanguinaccio con i pinoli.
E sfrecciare in una Marbella tra gli olivi, tra mare e montagna, un palco rococò, un australiano con l’armonica, una birra x 2, bevendo dallo stesso bicchiere.
Un libro d’avanguardia e silenzio sulla musica prog.
Un senso d’oppressione e uno di libertà.
Tuffarsi nell’orizzonte.
Incursioni di vita nuova e medley d’emozioni gastriche.E il passo felpato mentre il caffè sale, il neon di prima mattina mentre i figli dormono e il treno che inesorabilmente fa ciuf ciuf con un pacco di fagioli sottovuoto, Caronte per un nuovo girone, senza il profumo di casa, ma con 365 mutande di ricambio.

You've got the love

Un’ idea geniale  per San Valentino

Messa solo momentaneamente  in stand by l’invidia per i suoi capelli (taglio+colore) e lo sbatter della chiappetta soda su una luna glitterata, credo che la cantante britannica Florence+The Machine, abbia la chiave di questo San Valentino.

You’ve got the love

Lo ammetto: in tutti i miei innamoramenti, all’amore per Dio non ci avevo ancora pensato. Ma si può sempre recuperare.

Canta: Sometimes I feel like throwing my hands up in the air
I know I can count on you
Sometimes I feel like saying “Lord I just don’t care”
But you’ve got the love I need To see me through”…

E’ gratis!

 

Piccole donne crescono

piccole-donne

Una mia amica vuole andare in Australia, un’altra si è appena licenziata da un’agenzia da cui un tempo mi licenziai anch’io, anzi, staccai solo i fili del pc, perché non so quanto puoi licenziarti se non ti hanno mai fatto un contratto.

Comunque.

La domanda era: partire o restare?

Questa domanda se la fa una che è già partita, che ha lasciato il paesello, ma che comunque si sveglia immaginando che le cornacchie sul tetto sono gabbiani e lo sfrecciare delle auto, onde del mare.

Una che spera di ingrassare “giù alla Marina” mentre i figli giocano con i figli delle amiche e magari si fidanzano pure assieme, omaggio alla comune dei tempi andati.

Ma come si fa a fare questo se tutti se ne vanno e al paesello non c’è più nessuno?

Insomma in un racconto che funzioni bene ci deve essere uno che resta e uno che parte.

Ci si vedrà come ora si sta a telefono?

Un caffè rosicchiato a Pasqua, un prosecco ingozzato a Natale… sempre di corsa, sempre frammenti, dettagli che si perdono…sarà così?

Non sei più te, ma il ricordo di te, dei viaggi insieme, della convivenza in Finlandia, delle notti a teatro, delle risate in un’auto…sarà così?

Io, reduce da un’isola dei famosi domestica, come Sergio Muniz allora sull’isola, non voglio definirmi già nell’idea di una vita che sarà, ma io che sono andata, che sono già andata e che sono sempre andata, fregandomene di Pasque e Natali tutti a tavola, mi viene il prurito solo all’idea di ventidue ore d’aereo.

Cioè il mio concetto è, sono andata, non voglio andare ancora, non più lontano, almeno qui la lingua è la mia, almeno ritorno in giornata, almeno è Italia, bella, brutta, è Italia.

Ma forse è solo un pensiero, una sosta, un pit- stop prima del Sud.

Che poi il Sud delle piccole donne di oggi può anche essere il Tirolo.

Ecchilosa.