Gentil e onesto sesso

Ci sono tre cose che un uomo non deve mai dimenticare:

a) temere  le donne.

b) temere le donne emancipate.

c) temere le finte emancipate al volante.

 

a)     le donne costituiscono una  razza da frequentare tre giorni al mese.

 In questo lasso di tempo sono esseri celestiali e sono capaci di mixare un blow job da oscar ad una sana chiacchierata. La restante parte è divisa equamente tra sindrome premestruale, sindrome post mestruale e ciclo. Se una donna non vuole fare una cosa, sarà sempre per una delle cause sopraelencate. E se non vuole scoparvi a marchese perché le fa schifo, rassegnatevi, non le piacete abbastanza.

b)     le donne emancipate hanno un approccio aggressivo.
Brillanti e spigliate, trasformano ogni essere respirante in uno Spider Men pubico. Il lato positivo è il risparmio. Le donne emancipate evitano la ridicola e costosa preparazione all’amplesso (sms di buonanotte, fiori, incursioni sul luogo di lavoro, weekend a sorpresa, cd iperglicemici) dimostrando al mondo quanto una scopata può essere allo stesso tempo appagante  e  low cost . Il lato negativo è che dopo aver testato l’infallibilità di questa strategia,  le donne emancipate non vogliono più scopare. E non perché ci hanno perso gusto, come la maggior parte degli uomini pensa, ma perché in fondo, dicono, loro non sono così come sembrano, l’aggressività è tutta una facciata. Non scopano perché loro sono…fragili.
c) Questa regola è un corollario della regola b.
 Le donne realmente emancipate guidano bene l’auto, perché la loro indole competitiva le mette a confronto con gli uomini fin da piccole. Non importa l’estrazione sociale, contano solo due cose: rivalsa e vittoria. Questa regola vale soprattutto al Sud per il cosiddetto masculone che a sette anni sa già cambiare le gomme e picchia il padre col cicciobello. Le finte emancipate si distinguono per il fatto che vogliono guidare afforza l’auto anche se sono imbranate. Vogliono guidare perché quando saranno mamme devono accompagnare i figli a scuola e andare al mercatino con la suocera il sabato. In guardia, sono pericolosissime. Camminano a luci spente, si appizzano a retromarcia nei vicoli ciechi,  dicono agli sconosciuti che hanno appena preso la patente anche se guidano da quattro anni. Hanno solo una cosa in comune con le emancipate: non la danno, neppure al parcheggiatore, che dopo essere stato costretto a parcheggiare perchè loro non lo sapevano fare,  le aiuta a sistemare la spesa nel cofano dell’auto.
Teorema: trionfo del luogo comune. Gli uomini preferiscono le gatte morte ( e le bionde) perché parlano poco e ficcano assai. (Perché mai  "gatte morte"?)

Sacralità dell' Autentico

E nella tortuosa ricerca dell’Autentico, finisco alla festa di San Gennaro.

E’ una festa privata, ma per rispetto del Santo, mi metto una mse sacrale con un lungo rosario di legno e una gonna a codè.

Sono una dark suora postmoderna.

Lo so perché per strada mi mettono i cuppetielli dietro.

A me e a wlemetafore, che sfida la folla metropolitana con uno scialletto blu elettrico in versione di Madonna Incoronata.

Sostanza e dialetto. Rieccomi nel tempio sacrale dell’amicizia dove il profumo di una ciambella al cioccolato scioglie gli aloni del mobbing. Basta così poco.

Basta il pan degli Angeli per essere felici, l’estatica contemplazione della cicatrice dell’ Altro, che porta in viso la stessa alopecia da stress che tu ti porti dentro. Alleluia.

Non attaccare il ciuccio dove dice il padrone, mi ripeto mentre avanzo in processione verso San Gennaro. Esprimo un desiderio a venti centesimi  e abbiamo anche noi il nostro lumino acceso ai piedi della statua policroma. Goodbye all’overload emozionale e alle buone maniere.

Vino dolce e salato, sguardi sopra la folla, chiacchiere folkloristiche, incontri identitari, ma al secondo bicchiere mi fermo perché l’Autentico non ha bisogno di alcol o di icone punk per esprimersi. L’Autentico è simpatico, è chiattulillo ma con fascino, ti accoglie come la pecorella smarrita,  si incarna nel femminiello vestito da San Michele, nel  culo a culo col matrone illuminato, nel  trans sulla scala  con il  vestito rosso rubino.

E’ una pizza gnommosa alle tre del mattino.

Abballi l’elettronica italiana nel covo del terzo sesso, puoi eclissarti e puoi  ridere sfruttando l’ascendente che madre natura ti ha donato sul gaio. Alla fine fai ridere e basta. Perché nello slang dell’Autentico il ridicolo è out. Decisamente out. Ammèn.

 

StRagista

Io mangio cibi caldi.
Il mio caffè è ristretto.
Non sarò mai come la capa della mia cumpagnella che mangia solo cibi crudi e quando chiede il caffè dice che lo vuole lungo e amaro come la sua vita.
Io canto ad alta voce quando scendo dal treno e quando tengo l’i pod nelle orecchie sotto la metropolitana ogni tanto sbatto pure le pacche.
Io sono intelligente.
Io volo con la mente.
Non mi suiciderò mai dopo un colloquio di lavoro come ha fatto oggi quello al centro direzionale.
Io sono intelligente, io volo con la mente.
Volo oltre la cappa di smog, sul nuovo ordinamento, sulle facce allo sbando degli stranieri nelle stazioni, sulle patine, sui silenzi forzati, sui computer senza cache, sul ciclo mestruale autunnale, sul brufolo duro, su quelle che vanno a lavoro con le borsette portacibo della Liu jo. Oltre, oltre, sempre oltre.
Pizzico sulla pancia? Se se.
Peli sullo stomaco? No honey, e’ sbagliat palazz’.
Volo con la rotula sinistra infiammata col sampietrino.
Volo di una grassezza leggera
Volo con indosso una busta di patatine San Carlo.
E sotto il vestito? Niente. Pecchè ije so spontanea.
E non mi avrete mai come volete voi. Da grande il mio sogno è fare strage di stage.
Sarò stRagista senza contratto.
Perché Signora Italia, voi state impazzendo. Vi dò il voi alla napoletana per non mandarvi affanculo come Beppe Grillo. Pecchè sò na guagliona educata.
Signora Italia quando sarete capoluogo del Terzo Mondo Provinciale io smetterò di cagare a progetto.
Questo mondo puzza di candida e mi dimeno tra alitosi a tempo determinato. E se metto una foto così grande sul mio blog vuol dire che sto veramente incazzata.

 

Arrivederci Irlanda

Non andare via.

Ti vedo scivolare sull’erba fluorescente e nell’acqua scura dell’Half Penny Bridge.

Ti spio da una tendina di merletto di un’isola incontaminata.

Mi chiedo come fai ad essere così profondamente gloomy e colorata.

Così lontana e così…casa. All the seasons in one day, no?

L’ atlantico scalpita e io divento crema densa e fiore di campo.

Bevo Guinness corretta al blackcurrant e datemi un’altra stout please. Che porta la rota, please.

Ma come si tradurrà smoothy… E come si spiega un viaggio?

Next please, two euros e storie inventate in una bella casa di Temple Bar.

I pub si va. Ma ci interessa solo ridere nei letti matrimoniali.

Ci siamo solo noi, siamo noi the dubliners nel retro di una chiesa anglicana, nell’autobus di Paddyboy che ci chiama col microfono, in  Wilde recitato da due attori per strada.

La Loney Planet scandisce i tramonti e gli addii . A Dublino si sogna il Donegal, a Galway rimpiango Dublino. Alle Aran mi fermo. Affondo nella coperta che profuma di vecchio. Vecchio di una messa in gaelico, vecchio che tutti  salutano, vecchio di un solo pub, un violino e trecento abitanti. Un vecchio che cercavo in un’estate che sembra autunno e poi nel bacon fritto della signora Mulkerrin  compare il panino col salame di mia nonna e quell’ odore di borotalco. Un vecchio so lovely.

Cogliendo le more e le viole del pensiero siamo quelle di cime tempestose e vorremmo cestini e cappelli di paglia.

E quando si parla inglese si calca l’accento italiano. Per far innamorare. Perché essere amati è una bella sensazione anche all’estero.

Sepolta dai tabloid ogni tanto mi ritiro in ascetica masturbazione. Dura poco.

A Belfast c’è  ancora aria di Troubles e mentre il tassista tatuato ci scatta la foto sotto il murales mi vengono i brividi. Quis separabit? Mistero delle religioni.

Poi ci si arrampica, si stacca la spina e non si sente più musica.

Solo il rumore assordante di casa.

 

 

 

 

Si, lo voglio

barbie1_500Peppereppepè. Il matrimonio torna di moda.

Tutti si sposano e sbarbatelli giocano alla dolcecucina con cicciobelli veri. Rigorosamente senza profilattico. Cesareo ed epidurale sono le parole più in voga in questa calda estate e anoressiche col pancione girano in canottiera tra i saldi di Benettòn premaman.

Il mondo è innamorato? Agli spermatozoi l’ardua sentenza.

I bambini sono sempre più belli e sfoggiano lentine colorate dai zero anni in su. Da Disney store un paio di mini occhiali a forma di zanzara tigre costano anche ottoeuro. Però le Crocks per i piccoli scaldano davvero il cuore delle mamme. I padri non si vedono, sono un optional deluxe.

Ma si parlava di matrimoni. Nasce un nuovo lavoro: il wedding planner.

Il wedding planner è addestrato per condividere lo stress da bomboniera e l’ansia da centrotavola con la suocera in menopausa. Che tali centrotavola siano penecentrici, ortofrutticoli,  floreali o astroboscopici restano comunque i più favolosi. Tanto da fare ooooooh. Scatenano la cleptomania delle zie vedove, felici di compensare la quota versata nellalista con la serra di Barbie nuova di zecca.

Chi non può permettersi il w. planner si accontenta della foto color seppia esposta nella vetrina del paese. Il bianco e nero fa miracoli. Trasforma le spose nella Bardot e nella Loren a seconda che il set sia un’auto d’epoca o una spiaggia con divieto di balneazione.

I più temerari si sottopongono anche al sevizio fotografica prematrimoniale. Sottordine di fotoreporter e cameraman le coppie si stringono la mano, infrangono le onde e si buttano a mare con tutti i panni. Lei avrà rigorosamente una t shirt bianca che si attaccherà ai capezzoli per un sicuro effetto Ferilli. Lui, un tattoo tribale che casualmente fuoriesce dal pinocchietto.

Il resto è opera di questi registi dei poveri che con la colonna sonora di Raf e un montaggio con Pinnacle faranno sentire gli sposi in un film. Un film che finisce con la sposa  grassa e lo sposo che si fa l’amante ucraina.

Vuoi tu…?Si, lo voglio.

Mi sento Marina

Blu chimico, splash, cloro, mi sento marina.

Sono un pesce che volteggia nelle vasche dell’atmosfera.

Splash, jazz, uh, yeah.

E se l’acqua entra ti sembra di morire.

Morbida sabbia e ghiaia che cammini attivando il sistema nervoso.

Cloro, iodio e un caffè bruciacchiato dall’onda.

Una corona su un bagno al tramonto.

Un limone su una banana matura.

Un tamburo che fa bum bum.

Muovi il culo! Muovi il cuuuulo! Uh, yeah.

Hai mai gridato sottacqua?

Hai mai messo gli occhiali per finta?

Hai mai visto una vagina nel palmo di una mano?

Pelle, pelle, pelle.

Risciacqua l’ansia nel sale e fai uno scrub ai pensieri.

Nuota che non puoi respirare.

Sogna il fisico a imbuto e tocca.

Tocca gli amici amanti, una conchiglia, un castello di pietre, un canotto.

Guardati i piedi riflessi sul bordo piscina.

Guarda la superficie prima di risalire dal fondo. E’ verde?

E’ unta di creme abbronzanti? Com’è?

Tu hai gli occhi che ridono e la voce calda. Come me.

Tu sogni lo sport, la tecnica, la solitudine, l’attimo che affina, l’estasi, l’urlo e il pianto.

Ci ritroviamo in alto mare, per poi lasciarsi andare. Please don’t say you’re sorry.

Mare dentro. Si, mare dentro. Avvolti dentro l’asciugamano.

Slacciando il costume che graffia il collo e si vede tutto, yeah.

Schiaffeggia l’acqua e batti i piedi.

Sfreccia su quelli shampati col capello gonfio di sole.

Mi sento Marina, como si mi sentia agua.

Mi sono innamorata di Marina, una ragazza dolce…Uh, yeah.

Disordina

E mentre ti spalmi l’olio johnson vorresti che maturino le pere.
E’ estate, sole di cicale, sale di melone, semi d’anguria.
Acqua, nuotare, senza occhialini che non comprerai.
Legandoti i capelli prima di immergerti.
Ti aggrappi a uno scoglio nascondendo il promontorio divenere.
La stessa strada da dieci anni e quella chiesa non l’hai mai vista.
Saviano mette ansia perché quellanapoli non la capisci.
Tu che vuoi capire sempre tutto. Gomorra con un segnalibro di Medjugorie.
E il tempo vola via, scorre sotto una doccia delle 6.50.
E non ci sono scarpe comode per Merincì, pronatrice confessa dinfradito.
La luna ti spegne il cervello intriso di lime e battute di shopping.
E luglio si sgretola nel conto alla rovescia di cinque lettere: stage.
E dillo Merincontraria.
Dillo che vuoi scrivere.
A penna, a gessetto, a matita, sulla tastiera unta, coi disegnini mentre parli a telefono.
E invece perdi tempo a fare l’editing della tua vita.
Non hail coraggio.
A mettere in ordine i cazzi di altra gente, perdi tempo.
E tra un enjambment e l’altro, ti acchiappi pure un destro da due scugnizzi.
Ma ordina Merincontraria.
Ordina e poi finalmente disordina.

Desperate Housewife

Disperata. Sono una casalinga disperata.
E non perché mi trombo il giardiniere come quelle del telefilm, né perché il Nelsen liquido mi ha scardato la french manicure.
Semplicemente non sono una casalinga.
Saranno le mani da pianista, come diceva mia nonna. Sarà che col grembiulino sembro la Dellera dei poveri più che una cuoca apprendista, sarà quel che sarà, sono il fallimento domestico del nuovo millennio. In questo raggiungo l’eccellenza.
Ho fatto più danni io in tre giorni senza mia madre che nostrosignor per il creato. Ih Ih.
La lavatrice. Un incubo. Versare il detersivo liquido fuori dal cestello può capitare. Ma non aprirlo con la centrifuga in stand by.
E’colata talmente tanta acqua bluelettrico che per arrivare nella mia stanza ci son voluti braccioli, maschera e tubo. Ma i misteri del prelavaggio sono nulla rispetto all’ermetismo dei colori. Ho trascorso mezz’ora di fronte a un top grigio melange non sapendo dove collocarlo.  “Chiari” e “Scuri” sono categorie semantiche troppo dilatate per una non affiliata. L’universo  della lavatrici si regge su semiosi illimitate sconosciute ai più. Il pareo fiorito dove va? Ne i “Colorati”?! E la tovaglia buona di merletto la lavo a freddo o nel girello dei 40°?
Sono la lavandaia degli aloni, la cuoca che apre i cassetti con le mani sporche d’olio, la casalinga che dimentica il freezer aperto, la sorella che i fratelli odiano perché li lascia senza mutande, la figlia che la mamma odia perché si è dimenticata di dare a mangiare alle tartarughe.
Disperata. Ero.
Stamattina  risveglio new age a ritmo di Folletto e Rainbow. L’ Aperegina è tornata, affiancata dalla fida operaia che con 7 € all’ora viaggia a 150 km orari.
 

www mi piaci tu

www mi piaci tu. www. www.
E non sei neanche tanto bello.
Mi parevi meglio.
Con la tua t attaccata al palato.
E hai anche i riccioli intorno all’ombelico.
E sono sicura che ce l’hai corto e grasso.
Però quando distrattamente mi sfiori il gomito si sconfinfera la dopamina.
Hai le zanne a posto dei denti.
Se fossi stato un animale saresti stato un castoro.
Te lo dico perché non esisti. Già non esisti più.
Perché ti sto scrivendo.
Non scrivo a te. Scrivo di te.
Perché ci dormo su. Su di te, sul gomito, su.
Su. Succedono tante cose e io non né ho idea.
Però sappi che quel giorno lì io c’ero.
Toc Toc, tu non mi sentivi?
Dell’uomo hai l’odore e la stretta di mano.
Poi occhi tristi e colline e praterie dove corrono dolcissime le mie malinconie.
E le tue?
Chi sa. I colori non li vuoi più.
E tirittitì.
Non sai che ti perdi. Le mie visioni.
Vibrazioni nell’etere.
Perché lo ammetto, mi fai sesso.
Per amarti non ho tempo.
Devo struccarmi.
 
Dedicato a Ombretta.
 
 

Stagista

Sono una donna sociale e ho un ruolo nel mondo.

A 14 mesi dalla laurea e una montagna di pali so finalmente rispondere alla domanda che stai facendo senza incarnarmi nel manga di Lamù e fulminare l’Ataru Moroboshi di turno.

Sono stagista. (Vaffanculo).

Sta -g i -sta. Du iu anderstend o vuoi lo spell? Si si, la divisione in sillabe è sbagliata, hai ragione tu fratello. Ma non me ne frega niente. Perché io sono staggista. Con due g.

Stagista. Di una importante società di produzione che non ti sto qui a spiegare frà perché tanto a te il teatro non ti piace e al cinema ti sei andato a vedere al massimo commediasexy con Bonolis. Invece a me il teatro mi piace. E pure assai. E sono contenta di iniziare la giornata tra locandine e manifesti di spettacoli che non conosco. Mi stimola, come dire, il clitoride cerebrale.

Stagista. Che è molto diverso da masterina o velina della formazione. E’ un’evoluzione.

Stagista. Vita vissuta a botta di fax, telefonate da smistare agli interni, fotocopie in A3, rassegna stampa, col dramma dei fogli spillati, frà. Con l’ansia dello scacciapuntine. Io le puntine non le so togliere, buco sempre i fogli. I fogli che vanno nel riciclo perché il mio capo non butta niente e se tu butti qualcosa è capace di calarsi nel  cestino e raccogliere fino all’ultima pallottola di giornale.

Ma tu che ne sai. Ho rischiato l’amputazione delle dita  con  le tenaglie che uniscono i fogli nei faldoni.

Stagista. So cos’è un plastichino, una window, un master, un toner. Aggiorno il calendario con Microsoft Excel. E ho un quaderno dei messaggi. Altro che emergenza rifiuti. Buco i fogli con la macchinetta che fa i buchi. Che meraviglia.

E imparo un sacco di nomi. Nomi importanti, mica nomi così. Nomi per cui sono la segretaria scema con cui lasciano le figlie a fare i disegnini. Fantastico.

E ho le colleghe del Mulino Bianco che apparano tutti i guai miei in faccia al boss.

Stagista. A cui qualcuno dice che devo essere più allegra al telefono. E io vorrei spiegargli che sono burrosa e pacata, ipersensibile ai rumori, dolcemente intollerante, ma passami la capa tua che non ho tempo.

Stagista. Con il portapenne zebrato, il calendario dell’artista e la guida di sopravvivenza di Wlemetafore.

Stagista. Che si atteggia ad andare a pranzo con i vecchi buoni tutor della formazione e a sentirsi dire Aldafù, stai nella zona più vip di Napoli, chi sta meglio di te.

Stagista. In ostaggio.

Stagista. Che si dicestag indugiando mollemmente sulla sdrucciola e non steig all’inglese come se ti dondolassi sulla seggiola.

Stagista. Già nostalgica della scrittura creativa e dei brainstorming con quelle buontempone del master.

Stagista. E me la godo finchè dura. Senza em, um, e pause di riflessione.

Perchè che stai facendo?

Stagista.